“Sull’isola di Bergman” di Mia Hansen-Løve – Recensione

Bergman Island

Un’ode a Ingmar Bergman per affrontare a testa alta le proprie scelte e percorsi di vita. In Sull’isola di Bergman, Mia Hansen-Løve traduce in immagine una feroce spinta interiore, proponendo una rilettura e risemantizzazione del suo vissuto in un’opera dall’evidente taglio personale. Nel film, presentato in concorso al Festival di Cannes e attualmente in sala, la biografia della regista francese gioca un ruolo importante, specialmente se pensiamo alla relazione ventennale (da tempo conclusasi) con il regista Olivier Assayas che trova qui un suo corrispettivo speculare nei due protagonisti Chris (Vicky Krieps) e Tony (Tim Roth).

Sull’isola di Bergman prende le mosse da questa pulsione autobiografica, ma allo stesso tempo non la rende il suo punto focale e determinante, proiettandosi al di là dei suoi confini. Il film di Mia Hansen-Løve è in tal senso anche un saggio sulla linfa creativa, sulla sostanza essenziale che permea l’opera cinematografica in quanto prodotto artistico, culturale e soprattutto umano. Chris e Tony, una coppia di registi, si trovano infatti a ricercare quella scintilla ed ispirazione impossibile da afferrare e da categorizzare trasferendosi per un’estate a Fårö, l’isola nel mar Baltico dove Ingmar Bergman ha vissuto per la gran parte della sua vita e girato numerosi dei suoi capolavori. In questo viaggio quasi terapeutico, in cui la coppia finisce anche per dormire sul letto di Scene da un matrimonio, il cinema e il Reale si fondono donando una precisa consistenza materiale ai sogni e alle verità celate dei suoi protagonisti.

Bergman Island

L’indagine condotta da Mia Hansen-Løve assume un punto di vista principalmente femminile, soffermandosi in particolar modo su Chris nel mostrarci il suo mondo interiore attraverso una sceneggiatura ancora incompiuta. Il racconto parallelo – ma altrettanto fondamentale – di Amy (Mia Wasikowska) e Joseph (Anders Danielsen Lie), i quali si ritrovano a Fårö molti anni dopo la fine della loro relazione, mantiene di fatto vive le tensioni desideranti di Chris, in dubbio sul suo rapporto con Tony ed in crisi con se stessa. Non si tratta di una catarsi in senso stretto, e quindi di un processo di eliminazione a scopo purificatorio, ma di un tentativo di rendere manifesto ciò che è trattenuto, forse rimosso, l’implicito e il non detto. Le coordinate di Sull’isola di Bergman contrassegnano dunque il possibile raggiungimento di una pace individuale, in questo caso perseguita nel cinema e nei suoi immaginari, con una mise en abyme che non vuole semplicemente limitarsi ad operare su due piani narrativi differenti, mirando invece a riordinare efficacemente la realtà.

In tutto questo, lo spettro di Bergman aleggia costantemente nel rappresentato, a partire dall’ultracinefilo (e autoironico) Bergman Safari sino ad arrivare ai costanti riferimenti alle opere del regista, presente come figura fantasmatica tra le mura delle sue residenze, nella visione dei suoi film e nelle riflessioni sulla sua persona. Mia Hansen-Løve si rivolge a questi echi bergmaniani, disseminati lungo le pieghe del suo film, per lavorare su un peculiare registro estetico che attribuisce una grande rilevanza alla sensibilità umana, con i meravigliosi paesaggi dell’isola di Fårö che si tramutano in punti di contatto tra Chris e il cinema, scavando nei meandri di un immaginario che può far emergere la verità, permettendole di trovare la sua strada tra le inscalfibili falde del reale.

Daniele Sacchi