La zona d’interesse di Jonathan Glazer, la recensione del film

La zona d'interesse

Nella sua lettera d’addio al figlio David, lo storico Joseph Wulf scrisse: «ho pubblicato 18 libri sul Terzo Reich. Quando si tratta dei tedeschi, puoi documentarti fino alla morte, può esserci il governo più democratico a Bonn, ma i massacratori di massa continueranno a camminare liberamente, avranno ancora le loro piccole casette e coltiveranno fiori». Wulf, che nel gennaio del 1945 riuscì a fuggire dalla marcia della morte di Auschwitz, si suicidò nel 1974 dopo aver dedicato la sua vita alla divulgazione dei crimini di guerra commessi dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Parte di questo lavoro sono anche alcuni componimenti in yiddish che lo storico realizzò personalmente proprio durante la sua prigionia ad Auschwitz. Uno di questi, Raggi di sole, è al centro di una delle scene più d’impatto del capolavoro di Jonathan Glazer, La zona d’interesse, opera quintessenziale sull’Olocausto e sulla banalità del male, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis.

Suonato al pianoforte da una giovane ragazza polacca, Raggi di sole di Joseph Wulf emerge come l’unico momento toccante e speranzoso di un film glaciale, ruvido e tetro, volto a descrivere l’orrore più grande mai commesso dall’umanità. Le parole stesse del componimento non vengono pronunciate e appaiono solamente a schermo, come se l’umanità non fosse più in grado di produrre alcun suono pacifico. La dimensione sonora predominante de La zona d’interesse, infatti, è ben differente, ed è tutta legata al fuori campo. Gli spari in lontananza, i pianti, le urla di dolore e di paura. Al centro della macchina da presa, in antitesi a tutto questo, lo spettatore viene posto dinanzi a quella che ad un occhio poco attento potrebbe sembrare una vita idilliaca. È quella di Rudolf Höss (interpretato da Christian Friedel), comandante del campo di concentramento di Auschwitz, di sua moglie Hedwig (Sandra Hüller) e dei suoi cinque figli, i quali trascorrono in pace la loro agiata quotidianità in un’abitazione situata all’interno della cosiddetta zona di interesse che circonda il campo.

Sin dai primissimi momenti del film, è evidente come Glazer non sia interessato a mostrare in prima persona l’orrore nel momento in cui questo, materialmente, avviene. Glazer non desidera esibire: La zona d’interesse non è torture porn, ma allo stesso tempo non è nemmeno un film empatico come potrebbe essere Schindler’s List (che tanto fu criticato, ad esempio, da Michael Haneke per la sua melodrammaticità e per la sua suspense eccessiva visto l’argomento così delicato). Il discorso di Glazer, invece, è sul margine, su quei territori di confine che sono in realtà delle maschere. L’orrore viene celato, oscurato dietro alla banale mondanità della vita. Lo sguardo del regista britannico si ferma sulla soglia del campo, dove risiede la famiglia Höss. Per loro, i 4 anni trascorsi ad Auschwitz sono stati i migliori della loro vita. Il senso di ribrezzo percepito anche solo nel pensare una possibilità simile è soverchiante. Mentre l’umanità è al suo punto più basso, gli Höss prosperano. Il giardino di rose, dalie e lillà di Hedwig cresce rigoglioso, Rudolf con il tempo viene promosso a supervisore di tutti i campi di concentramento e i figli crescono all’oscuro (almeno parzialmente) di quanto accade fuori dalle mura di casa.

L’apparente quiete della vita degli Höss è accompagnata da immagini tanto semplici quanto orripilanti, che possiamo descrivere accuratamente riportando le parole di un maestro come Todd Field: «in soli 10 minuti, Glazer realizza una delle più inquietanti rappresentazioni cinematografiche dell’Olocausto mai concepite, attraverso il semplice atto di mostrare Hedwig Höss mentre si mette il rossetto di un’altra donna, una donna che non incontreremo mai». La zona d’interesse è esperienza del vuoto, dell’assenza, del rimosso. Il terreno di scontro è completamente legato al dominio del percettivo, a partire dal sonoro penetrante, sino ad arrivare alla lugubre normalità attraverso la quale vediamo l’esistenza degli Höss procedere tranquillamente nonostante tutto quello che accade attorno a loro. C’è spazio anche per una digressione fiabesca, quel richiamo speranzoso legato alla ragazzina polacca che, per caso, recupera i componimenti di Wulf. Ma è un’anomalia, e Glazer non può che evidenziarlo alterando operativamente l’immagine cinematografica, ricorrendo ad un filtro in negativo che trasforma la ragazza in una sorta di inquietante contraltare della bambina in rosso del già citato Schindler’s List, quasi come se fosse una presenza aliena in un mondo che è ormai alla deriva.

Freddo e rigoroso – ma non artificioso – nel suo formalismo estetico, La zona d’interesse è una digressione dolorosa sulla pagina più nera della storia dell’umanità. Glazer però dimostra di saper riconoscere il valore del limite, e più concretamente di saper ragionare attivamente sul cosa mostrare e sul come farlo, indagando il mostruoso da vicino ed esponendolo per quello che realmente è: quella cornice appagante che alimenta la mentalità prevaricatoria. E lo fa a partire da sentimenti semplici, concreti, e in un certo senso condivisibili. Il possedere una bella casa e un bel giardino, ad esempio, oppure il fare carriera. Ma è nella perversione del sogno borghese che si finisce a diventare talmente tanto disumani da non riuscire più nemmeno a vomitare, come d’altronde possiamo vedere accadere allo stesso Rudolf Höss (che nel 1947 fu impiccato proprio ad Auschwitz per i suoi crimini). Da questo punto di vista, La zona d’interesse è, a modo suo, un vero e proprio monumento alla memoria, un elogio esplicito – lo vediamo in chiusura – di chi invece tutt’oggi si premura di preservare il passato, pur con la consapevolezza che i prevaricatori, i despoti e i tiranni continueranno imperterriti la loro discesa verso gli abissi più cupi.

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Daniele Sacchi