“Limbo” di Soi Cheang – Recensione (FEFF 23)

Limbo

Soi Cheang si riaffaccia al genere thriller dopo la trilogia action fantasy di Monkey King con un film incredibilmente grezzo, sporco, ferino. Si tratta di Limbo, un Seven hongkonghese in bianco e nero che impressiona, scuote l’animo e difficilmente permette allo spettatore di uscire indenne dal suo impeto espressivo. Lo schema è noto – una coppia di detective deve risolvere un caso che riguarda un serial killer – ma la forma è imprevista. Hong Kong si presenta come una città quasi distopica e abbandonata, la periferia è un labirinto di vicoli sporchi, di auto abbandonate, di marcio e spazzatura.

La città – perennemente sotto la pioggia – è chiusa in se stessa e i suoi abitanti non sembrano in grado di liberarsi dai propri demoni interiori. Il detective Cham (Lam Ka-tung), in particolare, è profondamente tormentato da un incidente che ha sconvolto la sua famiglia. La responsabile è Wong To (Cya Liu), una ragazza il cui ruolo risulterà però fondamentale per la polizia per cercare di trovare il serial killer che sta sconvolgendo la città. Al centro della trama di Limbo, infatti, troviamo l’azione criminale di un maniaco che stupra e sevizia le sue vittime prima di assassinarle. Il suo marchio di fabbrica è l’amputazione degli arti e la sua azione omicida è rivolta verso donne ai margini della società.

Limbo

La crisi identitaria hongkonghese è rappresentata lucidamente nel film di Soi Cheang, resa manifesta non solo dall’idea di effettuare una vera e propria indagine sociale ma anche dallo splendido lavoro di caratterizzazione dei personaggi, a partire dal rapporto tra il detective Cham e il suo collega Will (Mason Lee) che riporta alla mente – con le dovute differenze – quanto già visto in Memories of Murder di Bong Joon-ho o nel già citato Seven. Più interessante e meno derivativa è invece la relazione tra il detective Cham e Wong To. Sfogo, abuso, violenza sono i principi che guidano Cham nei confronti della giovane ragazza per la maggior parte di Limbo, sino a quando diventa evidente per l’uomo la necessità di mantenere salda la propria umanità e di porre un freno alla rabbia irrazionale e all’attribuzione eccessiva di colpa. La compensazione violenta è il mantra che muove sia le azioni del detective Cham sia quelle dello spietato serial killer, ma per il protagonista sembrerebbe esserci ancora una possibilità di redenzione, da ritrovare non solo in se stesso ma anche nel rapporto diretto con l’alterità.

L’esibizione violenta diventa così commento sociale, una critica forse troppo celata tra le pieghe del racconto di genere ma comunque presente e permeabile alla riflessione spettatoriale. Tuttavia, pur essendo un’opera acuta dal punto di vista autoriale, Limbo non esercita mai una vera pressione nei confronti di ciò che sta al di là del rappresentato, evitando divagazioni pretenziose di sorta e lasciando allo spettatore il compito di assorbire l’immagine cinematografica e i suoi fragorosi urti.

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Daniele Sacchi