“Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti” di Apichatpong Weerasethakul – Recensione

Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, film vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes del 2010, è lo straordinario manifesto di una poetica visiva assolutamente non convenzionale, avulsa da qualsiasi struttura riconoscibile e difficile da archiviare secondo le categorie e le logiche cinematografiche tradizionali. Oltre a ciò, Apichatpong Weerasethakul ha concepito il suo film come parte conclusiva del suo progetto artistico Primitive, inserendolo pertanto in un orizzonte concettuale ben preciso che, nello specifico, vuole spingere lo spettatore a riflettere sulla storia complessa dell’Isan, il nordest della Thailandia. Un’opera da un lato politica, dunque, ma anche – e soprattutto – tesa ad indagare le trame del vissuto e i percorsi interiori dell’essere umano, portando allo stesso tempo ai limiti il discorso sull’immagine cinematografica.

A tal proposito, infatti, Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti è un mélange di coordinate visive eterogenee e difformi, un vero e proprio itinerario dell’immaginario che si muove progressivamente da un genere all’altro. Non si tratta però di un pastiche alla Quentin Tarantino, bensì di un’indagine sulla cultura audiovisiva thailandese che prende le mosse da un cinema meditativo e di contemplazione sino ad arrivare al dramma in costume, passando poi dalle dinamiche proprie del film televisivo e dai territori dell’horror. «Il tutto è collegato dall’idea della trasformazione» (cfr.), sia nel passaggio stilistico tra istanze che il regista thailandese definisce come “vecchio” e “nuovo” cinema, sia nella rappresentazione dei suoi personaggi, con il film che viene reso uniforme perlomeno all’apparenza grazie al ricorso alla pellicola 16mm.

Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

All’interno di un assetto formale eclettico e variegato come quello tratteggiato, infatti, la narrazione e l’intreccio procedono in modi altrettanto insospettabili. Il film si basa sull’omonimo testo scritto dal monaco buddhista Phra Sripariyattiweti e si sofferma sulla figura di Boonmee, un uomo in fin di vita a causa di una grave malattia. Nei suoi ultimi giorni, Boonmee rincontra il figlio Boonsong, scomparso da molto tempo e ora tramutatosi in scimmia, così come il fantasma della moglie Huay. Questi eventi vengono percepiti in maniera naturale dall’uomo, che li accetta serenamente come parte del reale, come ricordi che, ciascuno a modo loro, riescono a riottenere una vera e propria consistenza materiale e tattile.

Lo zio Boonmee… ragiona in tal senso anche sul concetto di memoria, legato non solo all’aspetto personale ma anche al territorio, alla necessità di portare su schermo una parte importante della storia del nordest thailandese, ossia la lotta contro il Comunismo. Entrano così in gioco nel film, corroborandone la riflessione sull’immagine, una serie di fotografie che ritraggono la storia militare e popolare della regione, estendendo il discorso sulla memoria anche nei confronti del patrimonio culturale collettivo, con il tentativo di azzerare le divisioni create dal conflitto: uno sguardo verso il passato che mira, di fatto, a mantenerne vivo il ricordo, ma che allo stesso tempo invita anche al suo superamento.

Infine, il processo al quale si sottopone Boonmee nel corso del film è in piena linea con la filosofia buddhista dalla quale il regista ha preso ispirazione. La vita è sofferenza, ma Boonmee sembra aver compreso pienamente il valore del proprio percorso spirituale e fisico, accettando il dolore e andando oltre ad esso, conscio di essere solamente un frammento di un divenire continuo, teso tra riflessioni esistenzialiste, reincarnazioni, trasformazioni interiori ed esteriori. Il risultato dell’operazione attuata da Apichatpong Weerasethakul con Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti è dunque un flusso di coscienza per immagini che si traduce in atmosfere sognanti, fantastiche e imprevedibili nel loro sviluppo, un «film sui film» (cfr.) pienamente innervato di cinema.

Daniele Sacchi