“L’uomo invisibile” di Leigh Whannell – Recensione

L'uomo invisibile

Sono passati 20 anni da L’uomo senza ombra (2000) di Paul Verhoeven, uno dei numerosi adattamenti del romanzo The Invisible Man di H. G. Wells, e i tempi sono ormai maturi per poter rivolgere lo sguardo ad nuova versione del racconto dello scrittore britannico. L’uomo invisibile (2020) nasce originariamente come parte di un progetto più ampio, una sorta di reboot dell’universo condiviso dei mostri della Universal, ma dopo il flop de La mummia (2017, Alex Kurtzman) il film è stato ripensato come un prodotto a sé stante e non interconnesso con altre realtà. Il regista e sceneggiatore Leigh Whannell risemantizza così alcuni dei contenuti del suo precedente lavoro Upgrade (2018) integrandoli all’interno dell’intreccio originale del racconto di riferimento, affrontando allo stesso tempo nuove tematiche e immergendosi pienamente nel tessuto del contemporaneo.

La narrazione de L’uomo invisibile si concentra sul personaggio di Cecilia, una ragazza interpretata da Elisabeth Moss. Come ci viene mostrato nell’incipit del film, Cecilia riesce a troncare una terribile relazione tossica con un ricco ingegnere nel campo dell’ottica, Adrian Griffin (Oliver Jackson-Cohen), drogandolo e fuggendo nella notte dalla sua abitazione, grazie anche all’aiuto dalla sorella Emily (Harriet Dyer). Poco tempo dopo, Cecilia riceve la notizia del suicidio di Adrian, ma i problemi non sono ancora finiti per la ragazza: presto, si troverà a dover fare i conti con una minaccia invisibile che inizierà a tormentarla giorno e notte.

L'uomo invisibile

Stalking, ossessione, controllo: il film di Leigh Whannell riformula il discorso sul potere contenuto nelle pagine del romanzo di H. G. Wells spostando il centro dell’attenzione sulle dinamiche di coppia e in particolare sulla trasformazione di una relazione amorosa in una modalità di prevaricazione sull’altro. Nel contesto mediale della contemporaneità, l’upgrade tecnologico così come il potenziamento e l’enhancement umano diventano possibili strumenti di sottomissione, dalle retoriche proprie della videosorveglianza sino ad arrivare al “potere” di diventare invisibili. L’impercettibile si dà come presenza pura e tangibile per il singolo individuo che di fatto subisce le forme di violenza trattate nel film, ma per chi non vive sulla sua pelle gli effetti di queste dinamiche non immediatamente riconoscibili è molto complesso comprenderne la portata. Non è un caso, infatti, che nel corso del film Cecilia non risulti mai credibile nelle sue accuse: difficilmente, infatti, si è portati a dare importanza alle minacce invisibili, quando in realtà sono spesso le più pericolose.

In termini di linguaggio cinematografico, Leigh Whannell ricorre ad una particolare strategia visuale e percettiva per mettere in scena il suo uomo invisibile. La macchina da presa propone punti di vista insoliti: vi è un costante passaggio da riprese in soggettiva che ci permettono di vedere esattamente ciò che vede Cecilia e riprese che invece ci mostrano la ragazza presumibilmente osservata dall’entità invisibile. Rumori, impronte e oggetti che si muovono alimentano a loro volta il senso di spaesamento provato da Cecilia, cercando di replicare le sue sensazioni nello spettatore. L’uomo invisibile, in tal senso, propone un’esperienza cinematografica a tutto tondo, lasciando tuttavia la sensazione – specialmente nell’ultimo terzo dell’opera – che si potesse fare qualcosa in più, sia in termini narrativi sia in termini stilistici. Whannell riconferma il suo talento dopo il buon Upgrade, ma è lecito aspettarsi che, prima o poi, il regista e sceneggiatore australiano possa compiere un vero salto di qualità.

Daniele Sacchi