“Marriage Story” di Noah Baumbach – Recensione (Venezia 76)

Marriage Story

Marriage Story, Storia di un matrimonio. La nuova pellicola di Noah Baumbach, in concorso alla 76esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è un concentrato di emozioni contrastanti e quasi inspiegabili. Il regista statunitense prova a raccontarci la fine di un lungo e profondo amore, indagandone i meccanismi di rottura, cercando di rappresentare con l’immagine cinematografica un sentimento apparentemente impossibile da spiegare a parole e da razionalizzare: può la conclusione di una relazione amorosa essere a sua volta una manifestazione d’amore?

L’inizio di Marriage Story ci presenta con due segmenti articolati i protagonisti del film, mostrandoci i pregi e i difetti di entrambi attraverso il ricorso al voice-over del partner opposto rispetto a quello che viene effettivamente descritto. Il mistero della sequenza è presto svelato: Nicole (Scarlett Johansson) e Charlie (Adam Driver) si stanno separando e l’esercizio è una parte della loro terapia di coppia. Baumbach raffigura il ritratto di una splendida famiglia, comprendente anche il figlio Henry, sovvertendo in realtà la situazione reale della stessa. Marriage Story è un racconto dello sgretolamento, della dissoluzione della famiglia a partire dalla perdita del sentimento che dovrebbe governarla, l’amore.

Nonostante le premesse, il film di Noah Baumbach è incredibilmente piacevole e divertente. I momenti di tensione drammatica non mancano, ma a governare l’opera è la sensazione che il focus della narrazione – l’amore e il legame con l’altro – sia sempre presente, anche quando sembra irrimediabilmente distante. Il regista statunitense riesce a rendere un diletto persino le discussioni tra Nicole e Charlie con i rispettivi avvocati, tra i quali spicca peraltro il personaggio di Nora, interpretato magistralmente da Laura Dern. Parallelamente, le interpretazioni di Scarlett Johansson e di Adam Driver sono tra le migliori delle loro intere carriere. In entrambi i casi, il passaggio nei dialoghi e nei confronti dal tono della commedia a quello del dramma sono impercettibili quanto allo stesso tempo imprevedibili, frutto di uno studio dei personaggi intenso e viscerale.

Marriage Story

A svolgere un ruolo fondamentale in Marriage Story, infatti, sono proprio le splendide caratterizzazioni dei due protagonisti. Charlie è un regista teatrale di successo a New York, mentre Nicole recita ormai da anni nel suo spettacolo. Il primo desidera proseguire il proprio percorso artistico, ma Nicole vorrebbe invece dedicarsi alla televisione. L’opportunità di girare una serie tv a Los Angeles viene colta al volo dalla ragazza, causando delle ripercussioni imprevedibili sulla loro relazione. Ma la verità sta sempre nel mezzo: di chi è veramente la colpa nella conclusione del loro rapporto? Si può, di fatto, parlare di una vera e propria colpa, o vi sono in atto un insieme di processi che non possono essere pienamente colti?

Noah Baumbach cerca di rispondere a queste domande mostrandoci progressivamente le cause che hanno condotto Nicole a chiedere il divorzio. Senza mai ricorrere al flashback, le motivazioni emergono nel confronto diretto tra i due protagonisti o attraverso la mediazione dei loro avvocati, creando una dialettica quasi perversa che reitera continuamente la necessità di porre la parola fine su qualcosa che è evidentemente già concluso. Ma, come anticipato, in Marriage Story Baumbach ci parla del concetto di chiusura in una chiave originale: la fine non può cancellare l’insieme di esperienze, emozioni ed eventi che hanno portato la coppia ad essere quello che è stata.

Il passato non è mai completamente passato, e perdura quotidianamente nelle nostre vite e nelle nostre relazioni, condizionando in diverse istanze il nostro presente. Nella tristezza per il raggiungimento della conclusione, nella rottura del rapporto, emergono tuttavia nuove consapevolezze, come la possibilità di una rinnovata identità individuale. Marriage Story è dunque un racconto dolce-amaro, uno di quei film che nelle sue due ore e poco più di runtime riesce a far ridere, piangere e riflettere in diverse occasioni senza mai apparire banale o scontato. Baumbach intrattiene il suo spettatore, lo colpisce nel profondo e riesce anche a stimolarlo intellettualmente: un’impresa  davvero eccezionale.

Le recensioni di Venezia 76.

Daniele Sacchi