“The Perfect Candidate” di Haifaa al-Mansour – Recensione (Venezia 76)

The Perfect Candidate

Haifaa al-Mansour, la prima regista donna dell’Arabia Saudita, torna con The Perfect Candidate a parlare proprio del ruolo della donna nel suo Paese d’origine. Dopo essersi dedicata infatti a due pellicole di produzione statunitense, la regista saudita con il suo ultimo lavoro si adagia su un territorio tematico già affrontato nel suo film del 2012 Wadjda (La bicicletta verde il titolo italiano), ma che, com’è evidente dal contesto sociale, politico e religioso dell’Arabia Saudita, necessita di ulteriori esplorazioni e prese di coscienza.

In corsa per il Leone d’oro nella cornice della 76esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, The Perfect Candidate è un’opera che non mira semplicemente alla pura denuncia sociale, ma – come d’altronde si poteva già percepire in Wadjda – cerca allo stesso tempo di accennare a dei barlumi di speranza per il futuro. Haifaa al-Mansour propone allo spettatore un film che crede: nella forza delle donne, nella possibilità del cambiamento, nella presa di coscienza da parte del genere maschile verso le situazioni deplorevoli alle quali le donne vengono quotidianamente sottoposte a causa della radicalizzazione del credo religioso, insieme alla sua politicizzazione.

The Perfect Candidate è, in tal senso, un’opera estremamente coraggiosa. Non tanto da un punto di vista strettamente tecnico o artistico, bensì per il messaggio di unione reciproca che intende trasmettere. La grande forza comunicativa del film di Haifaa al-Mansour risiede infatti nella sua sceneggiatura e nello studio caratteriale della protagonista, Maryam (Mila Al Zahrani), evidenziato soprattutto nelle sue dirette interazioni con l’ambiente opprimente che la circonda. Un’ambiente che rispetto al passato, anche recente, è sicuramente cambiato per il meglio – basti pensare alle sequenze in cui viene mostrata Maryam guidare, quando sino al 2018 non sarebbe stato possibile – ma che è ancora molto lontano dal garantire i pari diritti a entrambi i sessi.

Entrando nei dettagli dell’intreccio narrativo, The Perfect Candidate racconta il tentativo da parte di Maryam, una giovane dottoressa saudita, di farsi eleggere nel Consiglio Comunale. L’idea di candidarsi nasce quasi per caso e in seguito ad una serie di eventi che evidenziano alcuni dei soprusi che le donne saudite sono costrette a subire. Ma Maryam è una ragazza che non si lascia intimidire facilmente, facendo crollare ampiamente attraverso il suo rigore e la sua tenacia il mito – anche occidentale – che vede le donne di fede islamica come un soggetto-oggetto, passivo ed inerme.

Maryam è una donna forte in un mondo che prevede che l’immagine della donna sia quella di un individuo debole, e questo lascia immediatamente il segno sulla comunità. Nella sequenza iniziale vediamo la ragazza visitare un paziente uomo che, tuttavia, rifiuta il suo intervento. Oltre a non essere toccato, l’uomo non vuole nemmeno guardare la donna, e allo stesso tempo non vuole essere guardato. L’annullamento dello sguardo dell’altro viene sottolineato in più occasioni durante The Perfect Candidate, e spesso non sembra avere alcuna logica. In una sequenza, Maryam deve tenere un discorso di fronte a un pubblico di uomini ma non può legalmente farlo. Può, tuttavia, parlare da uno schermo, mentre si trova presente fisicamente in una stanza contigua rispetto a quella degli uomini. L’annullamento della presenza dunque non è totale ma è solo parziale, veicolato da un rifiuto per la fisicità al quale però segue un’accettazione contraddittoria e fantasmatica.

Tra una controversia e l’altra, Maryam si batte dunque per legittimare la sua presenza in quanto soggetto che necessita di essere ascoltato e rispettato: Maryam vorrebbe essere considerata, prima ancora che come donna, come un essere umano, e la società sembrerebbe muoversi – sebbene molto lentamente – verso questa direzione. Una buona parte del film è dedicata inoltre al tour del padre di Maryam, un suonatore di oud che ci permette grazie alle sue reazioni a distanza di avere un punto di vista maschile interno alla vicenda e differente rispetto a quello esibito dalle due sorelle della protagonista. Oltre a ciò, il subplot del padre permette a Haifaa al-Mansour di accennare ad un altro tema importante: il rifiuto, da parte di alcuni gruppi islamici radicali, della musica non religiosa. Il ritratto che la regista saudita ci restituisce del suo Paese è nel complesso negativo: tuttavia, sebbene la strada verso un grande cambiamento in positivo sembra essere ancora lunga, è anche grazie al valore culturale e sociale di film e opere come The Perfect Candidate che si può, tutto sommato, continuare a credere nel futuro e, soprattutto, nelle persone.

Le recensioni di Venezia 76.

Daniele Sacchi