“Moving On” di Yoon Dan-bi – Recensione

Moving On

Moving On (Nam-mae-wui yeo-reum-bam) è il film d’esordio di Yoon Dan-bi, giovane regista sudcoreana che si cimenta con un’opera dalla narrazione insolita se paragonata all’ecletticità dei suoi connazionali, alla quale il pubblico mondiale si è ormai abituato dopo i grandi successi degli ultimi anni. Difatti, Yoon Dan-bi propone un film dal gusto forse più europeo, capace però di raccontare con intimità alcune problematiche sociali importanti della Corea del Sud.

Durante l’estate i piccoli Ok-ju e Dong-ju si trasferiscono con il padre nella casa del nonno. La noia estiva viene interrotta dall’arrivo della zia, che sarà una figura chiave soprattutto per Ok-ju, pre-adolescente e con un rapporto complicato con entrambi i genitori. Il padre vende scarpe contraffatte e nel mentre studia nella speranza di emanciparsi; il nonno, silenzioso, passa le giornate nella sua grande casa quasi come se fosse da solo.

Moving On

A partire dalle dinamiche familiari e nell’esame delle ristrettezze economiche dei suoi protagonisti, la regista esplora le problematiche di quella stessa Nazione che già altri registi hanno saputo raccontare, ma con un approccio piuttosto peculiare. Se l’ondata di successo del cinema sudcoreano ha ormai abituato il pubblico a continui cambi di registro, a volte anche di genere, e a un’impronta fortemente spettacolare e visivamente grafica, in Moving On ci si trova davanti a tutt’altra scuola di pensiero, più vicina ad esempio al cinema di Hong Sang-soo. Yoon Dan-bi sceglie di scomparire, di essere una presenza quasi invisibile in una storia comune, che di fatto diventa una sorta di documentario. La macchina da presa non si avvicina mai troppo alla scena e si predilige la profondità di campo ai primi piani, quasi del tutto assenti. Ci viene offerto, così, uno spaccato della società senza filtri e senza quella spettacolarizzazione che in certi casi ammicca più al gusto americano, con gli Stati Uniti che appaiono comunque come presenti, quasi come uno spettro che aleggia all’interno della società sudcoreana.

L’azione primaria del cinema quindi, il mostrare, viene pienamente perseguita, esibendo un contesto, una situazione comune che diventa arte per il solo fatto di essere stata ripresa. Moving On, pur con il freno a mano tirato nel fattore ritmo per rimanere il più possibile fedele al reale, riesce comunque a coinvolgere nei suoi momenti più concitati proprio per il naturalismo della sua messa in scena: in definitiva, dal film traspare una peculiare visione introspettiva su una società distante dalla nostra, ma che qui, paradossalmente, appare come più vicina che mai.

Alberto Militello