“Night in Paradise” di Park Hoon-jung – Recensione (Venezia 77)

Night in Paradise

Night in Paradise è il sesto lungometraggio di Park Hoon-jung, cineasta sudcoreano conosciuto soprattutto per aver sceneggiato il brutale I Saw the Devil (2010) di Kim Jee-woon e per aver diretto lo splendido gangster movie New World (2013) con Choi Min-sik. Come quest’ultimo, anche Night in Paradise – presentato fuori concorso alla 77esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia – è dedicato ad esplorare il mondo della criminalità organizzata nella Corea del Sud, raggiungendo livelli di dettaglio estremi soprattutto nella rappresentazione dei rapporti di potere tra i membri della Gangpeh, l’equivalente coreano della Yakuza giapponese.

Il protagonista del film di Park Hoon-jung è Tae-gu, un gangster legato ad un’organizzazione criminale gestita dal suo superiore Yang. In quello che possiamo considerare come il prologo di Night in Paradise, Park Hoon-jung ci mostra la morte improvvisa della sorella e della nipote di Tae-gu poco dopo averle introdotte e averci raccontato dello stato di salute precario della ragazza, affetta da una grave malattia. Presto diventerà evidente come dietro all’incidente potrebbe esserci la mano di una gang rivale per colpire al cuore l’organizzazione di Yang, un fattore che porterà Tae-gu a prendere delle decisioni avventate per portare a compimento la sua personale vendetta.

Parlare di Night in Paradise come di un semplice revenge movie, però, sarebbe sbagliato. Anzi, la ricerca di una compensazione per quanto successo alla famiglia di Tae-gu raggiunge il suo culmine effettivo già nella prima parte del film. In un certo senso, l’opera di Park Hoon-jung diventa poi un revenge movie “al contrario”, con le dinamiche tipiche delle organizzazioni malavitose che entrano pienamente in azione: ad un torto, ad una mancanza di rispetto, non può che seguire uno spargimento di sangue per cercare di riportare in equilibrio le relazioni tra i vari gruppi criminali. In questo, Night in Paradise non può che essere lodato, per essere riuscito ad offrire un quadro realistico, estremo e viscerale di quei mondi nascosti nel tessuto sociale che, in realtà, tanto celati non sono.

Night in Paradise

A tutto questo bisogna aggiungere il percorso di crescita personale del protagonista del film. O, per meglio dire, di rinascita, se consideriamo il grave lutto che ha sconvolto la sua esistenza. A giocare un ruolo fondamentale, così, troviamo Jae-yeon, nipote di un gangster leggendario che, proprio come la sorella deceduta di Tae-gu, soffre di una malattia molto grave. Il parallelismo tra le due ragazze è evidente e porterà Tae-gu a riflettere a lungo non solo sul suo ruolo nella mafia coreana, ma anche sul significato della sua stessa vita, toccando a tratti corde di intenso melodramma. Nel nichilismo esistenziale e nel cinismo di Jae-yeon, Park Hoon-jung nasconde la chiave interpretativa per il suo film, aggiungendo un elemento quasi di disturbo in un intreccio già ricco di peculiarità di suo il cui obiettivo è spingere lo spettatore ad andare al di là del contenuto dei meri eventi mostrati con la sua riflessione.

Oltre a ciò, Night in Paradise affianca alla sua trama elaborata e dalle tinte noir una ricercatezza visiva del dettaglio impressionante, specialmente nelle brutali sequenze d’azione che ci ricordano di come il cinema orientale sia una delle cinematografie mondiali che osa di più dal punto di vista di una rappresentazione cruda e viscerale. Aspetto che, allo stesso tempo, non è predominante nell’opera e viene controbilanciato da alcuni momenti più strettamente legati alla componente drammatica, all’intrigo e anche al romanticismo che emerge in diversi momenti tra il protagonista e la figura di Jae-yeon. Un insieme di elementi eterogenei che però vengono mescolati a dovere da Park Hoon-jung all’interno di quello che non può che risultare come un must see per gli appassionati del cinema coreano.

Le recensioni di Venezia 77.

Daniele Sacchi