“The Human Voice” di Pedro Almodóvar – Recensione (Venezia 77)

The Human Voice

Un anno dopo il Leone d’Oro alla carriera, Pedro Almodóvar torna alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia con un cortometraggio intitolato The Human Voice, liberamente ispirato all’omonima opera teatrale di Jean Cocteau. Protagonista assoluta del corto e sua vera e propria forza trainante è Tilda Swinton, a sua volta premiata con il Leone d’Oro alla carriera durante l’edizione di quest’anno della Mostra. Il corto riprende solamente l’idea dell’opera originale di Cocteau, con Almodóvar che riadatta il materiale di riferimento per piegarlo interamente alle sue esigenze, realizzando peraltro il suo primo lavoro interamente in lingua inglese.

Nello specifico, The Human Voice racconta le sofferenze di una donna – interpretata appunto da Tilda Swinton – dopo essere stata lasciata dal suo amante. La donna trascorre il suo tempo irrequieta, nella più totale solitudine o con la semplice compagnia del cane, rimuginando sulla possibilità del suicidio e presentandosi allo sguardo spettatoriale come completamente instabile, depressa, disfunzionale. Grazie ad una chiamata dell’ex amante, però, la donna può finalmente dare voce al proprio tormento. Non sentiamo mai la voce dell’uomo: Almodóvar decide di soffermarsi unicamente sulla voce della protagonista, una voce umana che esprime soprattutto dolore e sofferenza. Così, in The Human Voice assistiamo alla messa in scena di ciò che è nascosto, celato, invisibile, vediamo la manifestazione di qualcosa che quasi paradossalmente non può che essere sempre presente pur dandosi come assente, in attesa di esplodere e di mostrarsi per ciò che realmente è.

The Human Voice

Non è un caso che l’abitazione della donna protagonista del cortometraggio sia un set, un costrutto artificiale, qualcosa che a sua volta si erge come una parete tra ciò che è presente e ciò che è latente. A tratti, i discorsi della protagonista sembrano indirizzati più verso se stessa che verso il suo interlocutore, un tentativo forse di addentrarsi in un percorso individuale potenzialmente salvifico, con l’espulsione del marcio che può eventualmente condurre ad una catarsi e purificazione. Il punto di vista, di fatto, è uno solo ed è quello della voce umana. La centralità dell’individuo è fondamentale nell’esperienza proposta dal regista spagnolo in The Human Voice, che riesce comunque a non far pesare la componente più marcatamente di derivazione teatrale del corto, accompagnando a dovere il monologo di Tilda Swinton con i dettagli sul suo vestito, sugli oggetti che la circondano, sui DVD che riordina distrattamente, sulle reazioni del cane alle sue parole.

Con il suo corto, Pedro Almodóvar esce dalla sua comfort zone e si addentra in territori nuovi, leggermente più sperimentali, ma il suo stile c’è ed è pienamente riconoscibile lungo tutta la durata dell’opera, soprattutto nella costruzione di un discorso intimo e umanamente profondo. Ma il merito della riuscita di The Human Voice va soprattutto a Tilda Swinton, capace di passare dall’essere elegante all’essere minacciosa, dal dolore alla rabbia, dalla risolutezza alla disfatta. The Human Voice, dunque, è un connubio perfetto tra il lavoro del regista e quello dell’attrice, confermando – qualora ce ne fosse ancora bisogno – come entrambi siano pienamente a loro agio nella realizzazione della loro arte.

Le recensioni di Venezia 77.

Daniele Sacchi