“Nimic” di Yorgos Lanthimos – Recensione

Nimic

Nimic (2019) è un doppio ritorno per Yorgos Lanthimos. Un ritorno alla forma del cortometraggio, abbandonato dopo aver esordito al lungometraggio nel 2001 con O kalyteros mou filos, e un ritorno a territori estetici più riconoscibili nell’esame complessivo della sua proposta cinematografica rispetto a quanto presentato nel seppur meraviglioso La favorita (2018). Distribuito solo recentemente in Italia grazie alla piattaforma MUBI, Nimic si inserisce perfettamente infatti all’interno del corpus autoriale del regista greco, riaffermandone gli orizzonti perturbanti e ansiogeni a cui ci ha ampiamente abituato in opere come Kynodontas (2009) o The Lobster (2015).

Protagonista del cortometraggio è un violoncellista professionista interpretato da Matt Dillon. Tutta l’opera ruota attorno ad un primo, singolare e bizzarro, incontro tra l’uomo e una ragazza in metropolitana (Daphné Patakia). Il violoncellista chiede infatti alla ragazza l’orario, ma come risposta riceve solamente la ripetizione della stessa domanda. In seguito a questa scena semigrottesca, la ragazza inizierà a seguire l’uomo sino all’interno della sua abitazione, della quale possiede le chiavi, e ad imitarlo in ogni suo gesto e parola. Presto, diventa evidente come i due personaggi non siano nient’altro che due corrispettivi speculari, due ombre di una stessa figura che prima si sdoppia e poi si sovrappone, senza soluzione di continuità, in una progressiva frammentazione identitaria disarticolata ed imprevedibile.

Quello che inizialmente sembrava solamente l’incontro con una folle diventa presto il simbolo di un’irrefrenabile parcellizzazione collettiva, in cui il bizzarro e il grottesco sono tali solo per lo spettatore. Per quanto riguarda invece l’universo architettato da Lanthimos – come, d’altronde, accade di frequente nelle sue pellicole – gli elementi dell’eccesso, che disallineano ogni coordinata sicura, si presentano come la struttura determinante della realtà. La sovrapposizione e la perdita di ogni referente non vengono realmente percepite come un “problema” o una criticità da parte dei personaggi che interagiscono con il protagonista.

Nimic

In una sequenza, ad esempio, il violoncellista raggiunge la moglie nel letto. Similmente, poco dopo, è la ragazza a porsi nella stessa identica situazione. La specificità dell’individuo crolla in un mondo in cui il valore della differenza nell’esperienza intersoggettiva sembra venir meno. Yorgos Lanthimos, in Nimic, suggerisce che non siamo nient’altro che ombre sbiadite, intercambiabili l’una con l’altra. Nemmeno la performance in qualità di violoncellista da parte della ragazza, sostituitasi all’uomo, sembra provocare una reazione di distacco, un sentimento di confusione o di spaesamento nel pubblico che la osserva. Lanthimos attua uno slittamento semantico che grava esclusivamente sullo spettatore di fronte allo schermo, risuonando quasi come un monito nei suoi confronti, un invito a preservare la propria unicità.

La perdita dell’individualità appare infatti come un dato condiviso, e forse irrimediabile: corpi ed esperienze si sostituiscono e perdono di valore, mentre, allo stesso tempo, anche le regole del linguaggio sembrano implodere. Oltre ai personaggi che ripetono le frasi pronunciate, è lo stesso titolo, Nimic, ad apparire come imperturbabile e difficile da inquadrare. Da un lato, nimic in rumeno significa “nulla”, dall’altro lato si potrebbe pensare invece ad un riferimento al concetto di mimesi, chiaramente centrale nel corto. Lanthimos gioca con lo spettatore, ma lo invita anche al pensiero, con un’opera sì breve ma densa di grandi stimoli riflessivi.

Daniele Sacchi