Nope, la recensione del film di Jordan Peele

Nope

«Getterò su di voi un’immondizia abominevole, vi renderò vili e vi farò diventare uno spettacolo». Con queste parole si apre Nope, il nuovo lavoro di Jordan Peele, una citazione della Bibbia che diventa dichiarazione d’intenti in un’opera in cui il discorso sullo spettacolo, sullo showbusiness e sulla potenza dello sguardo è assolutamente centrale.

Nope inizia ancora prima che si veda il primo fotogramma del film. Mentre i loghi delle varie case di produzione scorrono sullo schermo, lo spettatore è immerso in un ambiente sonoro in cui un bizzarro dialogo, apparentemente insensato, viene interrotto da alcuni scoppi. La situazione deflagra in un caos sonoro, con versi animaleschi, suoni di percosse e urla di persone terrorizzate. Quando la luce inonda lo schermo la prima immagine che vede lo spettatore è uno scimpanzé coperto di sangue, un inizio in medias res che spiazza lo spettatore, ponendolo in una situazione inaspettata e senza spiegazioni. Si tratta di una sequenza che dura alcuni minuti acusticamente, ma solo pochi secondi sul piano visivo prima di lasciare spazio al film, con un meccanismo capace di solleticare la curiosità già dai primi secondi.

Più nello specifico, la trama del film si concentra in un’isolata valle nell’entroterra californiano dove convivono a pochi metri di distanza il ranch di cavalli per stunt cinematografici gestito da OJ (Daniel Kaluuya) con la sorella Emerald (Keke Palmer) e il parco divertimenti a tema western di Riky “Jupe” Park (Steven Yuen). Gli abitanti della vallata sono però testimoni di strani ed inspiegabili avvistamenti: qualcosa di misterioso e di potenzialmente pericoloso si nasconde nelle nuvole della California.

Jordan Peele porta al cinema qualcosa che non si vedeva da molto tempo, un blockbuster sugli UFO, un genere da non confondere con i film sugli alieni. Fulcro della storia non sono gli “omini verdi” ma gli oggetti volanti non identificati, più precisamente gli UAP per utilizzare la terminologia corrente. Si tratta di un genere che per un certo periodo ha avuto un buon successo come film d’intrattenimento, da Signs di M. Night Shyamalan a Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg, fino ad arrivare ai vecchi B movie di cui il più noto è probabilmente il cult Plan 9 from Outer Space. Da cinefilo postmoderno qual è, Jordan Peele ibrida questo genere con elementi ispirati ad altre opere, come ad esempio i kaijū eiga. Non secondaria, inoltre, è la passione del regista per l’animazione giapponese classica, che si riflette in una sequenza in motocicletta che cita apertamente Akira di Katsuhiro Ōtomo fino al design di Jean Jacket che sembra quasi uscito da una ben realizzata trasposizione live action di Evangelion e in particolare dei suoi angeli.

Su quest’ultimo tema, enfatizzato anche dalla citazione biblica iniziale, si potrebbe aprire un lungo dibattito, ma è interessante come Nope ci faccia ragionare più che altro sul rapporto dell’uomo con le altre creature. La supponenza dell’essere umano porta ad “umanizzare” gli animali, con il rischio di associare loro pensieri e comportamenti che sono nostri, ma che non trovano riflesso in natura. Lo sa bene l’allevatore OJ, abituato a trattare i cavalli con rispetto e attenzione, e sembra invece non saperlo l’intero ambiente dello showbusiness, che aspettandosi stupidamente una condotta simile a quella degli attori umani non potrà che pagarne le conseguenze.

L’impressione, in definitiva, che si ha con Nope è quella di un prodotto fatto da un regista, profondamente cinefilo e geek, che sembra chiaramente divertirsi, in quanto interessato al puro intrattenimento, non dimenticandosi tuttavia quello che è il cinema alla sua base: uno strumento fondamentale capace di veicolare importanti riflessioni.

Gianluca Tana