Piggy, la recensione del film di Carlota Pereda

Piggy

Sara (Laura Galán), una giovane adolescente affetta da obesità, viene costantemente bullizzata dai suoi coetanei, e persino la sua famiglia non la tratta con il dovuto rispetto. Un giorno, tuttavia, complice l’intervento di un misterioso sconosciuto, Sara deciderà di non essere più una vittima. Piggy, film di Carlota Pereda che rilegge ed espande il suo cortometraggio Cerdita del 2018, è un revenge movie dalle tinte horror che tematizza problemi come il bullismo e il bodyshaming attraverso un commentario sociale che abbraccia le peculiarità del cinema di genere. Con tutti gli aspetti positivi e negativi che ne derivano.

Vi è infatti una certa percepibile mancanza di equilibrio nel film della regista spagnola. Da un lato, vi è il plauso di mettere al centro della scena una protagonista insolita, lontana dai canoni e dagli stereotipi di “femminilità” a cui il cinema, la moda, la pubblicità hanno abituato, nel tentativo di inquadrare il nucleo centrale del film a partire dal punto di vista di una vittima. Come opera di ri-orientamento dello sguardo, Piggy sfrutta l’atipicità immaginifica (che non è tale nel “mondo reale”) della sua protagonista per inquadrare problemi concreti e comuni, ai quali ci si può facilmente avvicinare con le proprie esperienze personali, per un motivo o per un altro.

Allo stesso tempo, tutta la ricerca stilistica semi-grottesca e a tratti tragicomica che accompagna il film mal si sposa con le potenzialità di un eventuale avvicinamento empatico. Il connubio tra discorso sociale e il paradigma estetico perseguito da Piggy sono fortemente in antitesi. Si tratta sicuramente di una scelta voluta, forse per avvicinarsi allo stile dei prodotti recenti dell’A24 e, di conseguenza, al cinefilo horror moderno made in Twitter, ma che non paga fino in fondo in termini cinematografici. In un film che dovrebbe celebrare un progressivo avvicinamento all’alterità, si percepisce fin troppa distanza.

Piggy lavora attraverso simbologie semplici ed efficaci – ma poco originali – come il costante riferimento alla carne, dalla macelleria gestita dai genitori di Sara sino ad arrivare a centralizzare la corporeità stessa della ragazza, corpo che riempie l’immagine cinematografica diventandone focus essenziale. Così, l’intervento di una figura sconosciuta a salvaguardare la legittimità di questo corpo-immagine scardina il rappresentato, attivando quello squilibrio fondamentale che struttura l’esperienza complessiva del film.

Questo squilibrio potrebbe anche essere considerato come un fattore positivo, ma a mancare, nei momenti risolutivi, è una ricomposizione proficua che giustifichi in toto le scelte della protagonista, che se da un lato riesce a riappropriarsi della propria corporeità, e dunque della propria immagine, dall’altro lato non tutte le sue azioni sembrano perfettamente in linea con le sue volontà. Nel momento in cui Piggy decide di immergersi nelle tipicità del cinema di genere, tra slasher, ricerca di vendetta e leggere suggestioni splatter, finisce per normalizzare la sua ricerca estetica, perdendo di efficacia pur con tutte le sue buone intuizioni ed intenzioni.

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Daniele Sacchi