Pinocchio di Guillermo del Toro, la recensione

Pinocchio

Ormai lo abbiamo visto in tutte le salse, dallo sceneggiato a puntate al live action sino all’animazione e, finalmente, anche in stop-motion, ma Pinocchio continua a rimanere una storia meravigliosa di umanità e di crescita, ancora in grado di stupire – quando nelle mani giuste – e parlare a grandi e piccoli. In questo caso, sono le mani di Guillermo del Toro e di uno staff eccellente di animatori a regalarci un prodotto dal grande valore artistico e umano. L’unico rammarico nei confronti del film è legato alla brevissima vita in sala dovuta al rilascio immediato su Netflix, co-produttore della pellicola.

Del Toro lascia sostanzialmente intatta la trama del romanzo di Carlo Collodi nei suoi punti cardine, ma vale la pena elogiare quegli elementi, quelle aggiunte, che sono il marchio di fabbrica di uno dei registi dall’estetica più riconoscibile del panorama cinematografico contemporaneo. Bastano poche immagini per capire senza alcuna esitazione che Pinocchio è un film puramente di Del Toro, dal design delle creature alla palette cromatica dark, fino ad arrivare al tratto che rende questo adattamento il più interessante tra tutti, ossia l’ambientazione storica. Il primo Novecento torna spesso nel cinema di Del Toro (pensiamo a Il labirinto del fauno, Crimson Peak o La fiera delle illusioni), un periodo storico in cui buoni e cattivi sono facilmente individuabili e in cui le vicende umane si fanno intense e capaci di veicolare messaggi importanti, divenendo dense di significati. Quello che stupisce è con quale naturalezza un racconto dell’Ottocento riesca a scivolare nell’Italia del ventennio fascista senza perdere né un briciolo della sua forza comunicativa – anzi ravvivandola e adattandola ad un pubblico più adulto – né della sua spinta più satirica che, anche in questo caso, ne esce arricchita e più vicina a tematiche attuali.

Se il romanzo per bambini di Collodi serviva come parabola e monito a comportarsi correttamente, il film di Guillermo del Toro trae invece dal racconto un discorso sull’accettazione del lutto, sulla purezza irrefrenabile dei bambini appesantita dalle aspettative e dai problemi degli adulti, ma anche oppressa e condannata esattamente come il fascismo condannava il pensiero libero. Il nuovo volto del racconto è esemplificato da alcune scene particolarmente emblematiche, prima tra tutte la creazione di Pinocchio, nell’ebrezza alcolica e dolorante di un padre che ha perso il figlio, in una sequenza tra il gotico e il grottesco che rimanda molto alla creazione del mostro di Frankenstein. Un’altra analisi interessante è quella del parallelismo tra la figura di Pinocchio e quella di Cristo, particolarmente esplicita in diversi punti, un essere “non umano” che arriva per mezzo di un intervento divino a salvare la vita dei suoi cari, ma che suscita terrore tra i potenti che quindi cercano di eliminarlo.

La modifica più sostanziale, che svincola un po’ Pinocchio da un’interpretazione meramente cristologica, è invece la rinuncia alla dinamica del raggiungimento di una eventuale “ricompensa”: la prospettiva di diventare un bambino vero, per Pinocchio, non consiste in un reale premio per le sue buone azioni ma diviene quasi una sorta di punizione. Ciò che si celebra è il valore intrinseco della vita così com’è e per il solo fatto di esserci. Sono quindi molti gli spunti di analisi che il Pinocchio di Del Toro offre, sia in termini di continuità stilistica, sia in termini di messaggi veicolati, ma la verità è che andando oltre tutto questo e soffermandosi sull’impatto più immediato del film, Pinocchio appare come un prodotto in grado di incantare lo spettatore a tutti i livelli, dalla tecnica di animazione al design dei personaggi ai meravigliosi set, senza dimenticare la storia del burattino più famoso di tutti che desidera scoprire il mondo.

Alberto Militello