Prey di Dan Trachtenberg, la recensione del prequel di Predator

Prey

Ci sono alcuni elementi che hanno contribuito a rendere il predator uno degli alieni più iconici della storia del cinema che sono difficili da replicare oggi. I primi due film della saga erano figli del cinema d’azione di fine anni Ottanta e inizio anni Novanta, film muscolari, di one liner, che puntavano sul machismo, sulla forza fisica e sul carisma delle loro star (soprattutto Arnold Schwarzenegger). Negli anni, sia Nimród Antal (Predators) che Shane Black (The Predator) hanno tentato di replicare questa formula e probabilmente è proprio questo il motivo del loro fallimento. Diversamente, Prey, il nuovo capitolo della saga da poco disponibile su Disney+ (qui il trailer), si stacca completamente dai suoi predecessori, inserendo il film nell’attualità cinematografica con la scelta di una giovane protagonista nativa americana, in lotta tanto contro il mostro alieno quanto contro una società maschilista che la vorrebbe controllare.

Non più un cinema di muscolosi, ma di donne in cerca della propria dimensione. Dan Trachtenberg spoglia l’alieno riportandolo alla sua dimensione primitiva: un cacciatore nella foresta all’inseguimento delle sue prede. Questo si riflette anche in un nuovo design che abbandona i colori metallici e le armi al plasma per rifiniture d’osso e armi perforanti, contribuendo a rendere l’aspetto dell’alieno ancora più brutale e pericoloso.

Ambientato trecento anni prima del primo Predator, Prey ha per protagonista la giovane Naru (Amber Midthunder), una comanche che rifiuta la via impostale dalla tribù. Ad un futuro da raccoglitrice e guaritrice ne preferisce uno da cacciatrice con gli altri giovani uomini. In un Canada ostile, abitato da animali feroci e coloni senza scrupoli o rispetto, Naru dovrà affrontare un demone oltre la sua immaginazione per cercare di salvare la sua gente.

Femminismo e critica al colonialismo entrano nella trama del film, creando un interessante parallelismo tra il predator che scuoia i suoi nemici come trofei di caccia e i colonizzatori francesi che sterminano i bufali, scorticandoli e lasciandone i corpi abbandonati in balia delle bestie. Purtroppo, nel terzo tempo il film scivola su alcune scelte di trama forzate, pensate per permettere di arrivare ad una risoluzione ottimale del problema, che tuttavia appaiono troppo costruite e difficili da accettare.

In particolare, appare strano il modo in cui una giovane comanche riesca a comprendere il funzionamento della vista ad infrarosso dell’alieno (anche perché l’illuminazione le arriva in un momento in cui nessun elemento tradisce questa capacità) e a capire come sfruttare le sue armi. Prendendo in prestito le parole di Arthur C. Clark, «qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia». Molto più realistica è allora la reazione dei francesi che, posti davanti un ordigno ticchettante mai visto prima, vi si avvicinano incuriositi piuttosto che correre lontano.

Prey non sarà iconico come i primi due capitoli della saga, ma è sicuramente un’ottima aggiunta complessiva che si sarebbe meritata il passaggio sul grande schermo, in modo da valorizzare appieno la fotografia e la suggestiva ambientazione canadese in cui si muovono i suoi protagonisti.

Gianluca Tana