Profondo rosso, la recensione del film di Dario Argento

Profondo rosso

Lunedì 10 luglio ritorna al cinema Profondo rosso nella versione restaurata in 4k distribuita da Cat People. Il film cult di Dario Argento, pietra miliare del cinema italiano di genere, rappresenta una perfetta crasi tra la marcata cifra thriller dei primi lavori del regista – la meravigliosa trilogia sugli animali, composta da L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio – e le atmosfere orrorifiche che caratterizzeranno la sua produzione cinematografica successiva, come in Suspiria e in Inferno.

Protagonista del film è il pianista jazz Marc Daly, interpretato da David Hemmings. Marc è un perfezionista atipico nel suo perseguire le sfumature più grezze e caotiche del jazz («troppo pulitino, troppo formale, deve essere più buttato via» è il rimprovero rivolto alla sua band dopo un’esecuzione musicale giudicata fin troppo pulita e perfetta), compatisce l’amico e collega pianista Carlo (Gabriele Lavia) per via del suo alcolismo e non ha una grande opinione del genere femminile («le donne sono delicate, sono fragili»). Tuttavia, Marc non esita nemmeno un istante nel tentativo di salvare la vita alla giovane sensitiva tedesca Helga Ulmann (Macha Méril), aggredita all’improvviso nel suo appartamento da una misteriosa figura. Purtroppo, l’uomo non riesce ad arrivare in tempo, e deciderà in seguito di indagare sull’omicidio insieme alla giornalista Gianna Brezzi (Daria Nicolodi).

Il tono orrorifico e macabro di Profondo rosso viene suggerito sin dai titoli di testa dalle evocative – ed iconiche – composizioni musicali realizzate dai Goblin di Claudio Simonetti e Massimo Morante, alle quali Argento affianca una messa in scena che, a prima vista, sembra gettarsi a capofitto tra le tele dello spiritico. La seduta pubblica della sensitiva Helga, infatti, apre il film con un contatto diretto con una dimensione altra, con una percezione extrasensoriale che trafigge la donna trascinandola – insieme allo spettatore – in un orizzonte di incertezza e di precarietà. Lo stesso luogo del delitto al centro delle vicende del film, l’appartamento di Helga, con i suoi quadri, i suoi volti, i suoi specchi, amplifica ulteriormente la sensazione di disagio ricercata da Argento nel film, in un caleidoscopio sensoriale che ha una matrice anche architettonica, a partire dalle geometrie impreviste dei vicoli e delle strade torinesi sino ad arrivare alla spaventosa – e fondamentale – Villa Scott.

In Profondo rosso diventa quindi essenziale scavare nel perturbante per poter individuare una chiave interpretativa legittima dei suoi misteri, misteri che riguardano non solo – banalmente – la verità su cosa sia successo ad Helga, ma anche gli stilemi stessi del thriller, del giallo all’italiana, ossia le componenti che ambiscono a “strutturare” una messa in scena che tende ad una ricerca del vero. È sintomatico, in tal senso, come le parole più concrete del film vengano pronunciata dall’ebbro Carlo nei confronti dell’amico Marc: «tu credi di dire la verità, e invece dici soltanto la tua versione della verità». In uno scenario labirintico, stratificato e complesso dove il reale e il razionale lasciano inevitabilmente spazio al sopraggiungere dell’irreale e dell’irrazionale, la verità “tradizionale” sfuma, e ciò che rimane è solamente la verità dell’immagine cinematografica, unica reale testimone di un processo che è pura indagine rappresentazionale.

Daniele Sacchi