“Seberg” di Benedict Andrews – Recensione (Venezia 76)

Seberg

Nel 1960, Jean Seberg stregava il mondo con la sua fenomenale interpretazione in Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, diventando un’icona della Nouvelle Vague ed entrando così nella storia del cinema. Oggi, Benedict Andrews racconta con il suo secondo lungometraggio, Seberg, la persona dietro all’attrice, esaminando in particolar modo gli eventi che hanno visto la ragazza come protagonista di un’indagine dell’FBI durante gli anni ’70, mostrandone il progressivo declino psicologico che la portò al suicidio. Il film, che il regista australiano ha definito una «love song» per l’attrice, vede Kristen Stewart nei panni della protagonista.

La trama si sofferma sul rapporto tra Jean e alcune organizzazioni in lotta per i diritti degli afroamericani, e sul COINTELPRO, un programma dell’FBI dedicato allo spionaggio di gruppi e cittadini considerati come sovversivi e pericolosi. Al centro della narrazione vi è anche la relazione amorosa tra Jean Seberg e Hakim Jamal (Anthony Mackie), una figura importante per il Black Power Movement sulla quale l’FBI indaga. Con Seberg, Andrews realizza un biopic inaspettatamente originale, dove invece di limitare il proprio spettro immaginativo alla semplice celebrazione della figura dell’attrice americana, decide di ampliarlo in territori difficili e imprevedibili. Nel corso del film, ad esempio, si rende gradualmente evidente come uno degli aspetti fondamentali di Seberg sia lo studio delle dinamiche della surveillance e dei loro effetti, un argomento centrale anche nel dibattito sociale e politico contemporaneo.

Seberg

Più precisamente, Benedict Andrews decide di istituire un parallelo sensibile tra lo spettatore e l’agente dell’FBI Jack Solomon (Jack O’Connell). L’uomo è infatti particolarmente restio ai modi operativi richiesti dai suoi superiori e dal comportamento dei colleghi, ma non può fare altro che adeguarsi alla sua condizione di osservatore passivo. Come Jack, lo spettatore diventa egli stesso testimone inerme delle azioni di controllo e di sabotaggio dell’FBI mosse nei confronti di Jean, in quello che di fatto si presenta come un voyeurismo spietato e irrefrenabile. Per Jean, tuttavia, le retoriche della sorveglianza, seppur celate, diventano presto una manifestazione reale, trasformandosi in pura ossessione. Jean sa che in virtù della propria posizione di attrice conosciuta e importante sarà sempre sotto i riflettori, ma quando è la sua sfera privata ad essere sviscerata per essere manipolata, vi è un impatto destabilizzante. In tal senso, Seberg riesce a presentarsi come un ottimo thriller psicologico, senza mai eccedere nella forma e mantenendo lungo tutta la sua durata uno stile controllato e coerente con se stesso.

Paranoia, senso di oppressione, pulsione scopica sono solamente alcuni degli elementi presenti in Seberg. Uno spazio importante viene lasciato alle tematiche rivoluzionarie dei movimenti di protesta degli afroamericani, che occupano una buona parte del film e che mostrano, in parallelo alla nascita di un programma come il COINTELPRO, le difficoltà di farsi accettare quando si è visti come diversi. Andrews non si limita tuttavia alla dialettica noi/loro e ci mostra anche alcune delle contraddizioni interne di questi gruppi, come nel caso di Hakim Jamal, disprezzato dai suoi compagni per essere andato a letto con una donna bianca. Seberg non vuole essere un film pedante e eccessivamente critico, ma in ogni caso riesce a far risaltare in maniera ottimale i problemi e le incoerenze dell’epoca che racconta, evidenziando come alcune delle istanze di un tempo si ripresentino ancora tutt’oggi. Tutto questo, senza mai tralasciare il vero punto cardine del film, il sentito omaggio ad una delle più grandi icone della settima arte.

Le recensioni di Venezia 76.

Daniele Sacchi