Sexy Beast di Jonathan Glazer, la recensione

Sexy Beast

Sexy Beast (2000) è l’esordio di Jonathan Glazer alla regia di un lungometraggio, arrivato dopo una decade trascorsa tra videoclip e pubblicità. Il background estetico del regista britannico, da Karmacoma dei Massive Attack a Karma Police dei Radiohead, è d’altronde immediatamente evidente nella roboante sequenza iniziale del film. Un gangster “in pensione”, Gal (interpretato da Ray Winstone), vive in una meravigliosa villa spagnola con la compagna – ed ex pornostar – DeeDee (Amanda Redman), il migliore amico Aitch (Cavan Kendall) e sua moglie Jackie (Julianne White). Mentre le note di Peaches dei The Stranglers risuonano in sottofondo e il rosa sgargiante dei titoli di testa invade lo schermo, Gal – intento a prendere il sole in piscina – rischia di essere investito da un enorme masso franato alle sue spalle.

L’apertura di Sexy Beast rappresenta pienamente l’essenza del film di Glazer, a partire dalle scelte di montaggio eclettiche e visionarie che contraddistinguono l’intera sequenza sino ad arrivare alla – neanche tanto sottile – ironia che abbraccia a sé l’immagine e che in seguito investe a più riprese il tono del racconto. In tutto questo, il macigno che a momenti toglie la vita a Gal funge di fatto da vero e proprio monito simbolico a quello che invece si manifesterà come un peso ben più letterale e pressante: l’arrivo del sociopatico Don Logan (un irrefrenabile Ben Kingsley), un vecchio amico criminale di Gal, pronto ad assegnare al protagonista una complicata rapina armata per conto del loro boss, il minaccioso Teddy (Ian McShane).

Sexy Beast, tuttavia, non è il tipico heist movie. Il centro focale dell’attenzione del film non è la missione, ossia la rapina in sé, ma la riluttanza di Gal nell’abbandonare la propria vita agiata per ritornare ai misfatti del passato. Jonathan Glazer costruisce così un crime “al contrario”, dove la questione principale non è tanto l’organizzazione del colpo o la sua effettiva riuscita, ma se il protagonista alla fine vi parteciperà o meno, e in quali condizioni. È facile individuare nel Gal di Sexy Beast qualche rimando implicito al Tony Soprano de I Soprano, in particolar modo nel tentativo di Glazer di decostruire apertamente l’immagine classica del gangster, non più letto attraverso una lente strettamente machista, preferendo ricorrere invece ad una chiave interpretativa più ampia e meno tradizionale, in grado di porre l’accento anche sulla psicologia dell’uomo e sulle sue criticità.

Lo scurrile, violento e ingestibile Don Logan, da questo punto di vista, è il completo opposto di Gal. Totalmente ancorato alle logiche e alle dinamiche del mondo criminale, Don Logan è una mina vagante incapace di comprendere anche solo la possibilità di una realtà antitetica ad esso, smarrito tra pratiche brutali, mancanza di rispetto verso il prossimo e codici d’onore che non concepiscono alcun tipo di opposizione e rifiuto. Jonathan Glazer proietta lo spettatore all’interno di un quadro grottesco, ricco di estetismi e di tentativi di sublimazione proprio in quei punti dove è possibile rilevare una differenza, uno scarto rispetto a ciò che è atteso o comunemente riconosciuto. Non è un caso che la sua produzione cinematografica successiva si spoglierà sempre di più dell’orpello narrativo per concentrarsi maggiormente sulla cornice, sui margini del rappresentato, come nel monumentale Under the Skin o nel suo film di prossima uscita The Zone of Interest, vincitore del Grand Prix all’ultimo Festival di Cannes.

Daniele Sacchi