Una shiva, nella tradizione ebraica, è un periodo di lutto di sette giorni che segue la morte di un parente. Durante questo periodo gli amici e i parenti alla lontana si recano a casa del defunto per porgere le proprie condoglianze ai parenti più stretti e per condividere il loro dolore. Per Emma Seligman la shiva diventa soprattutto un’occasione per esplorare le dinamiche di potere per mezzo della sfera sessuale. Nel suo lungometraggio d’esordio Shiva Baby, Seligman dirige Rachel Sennott in un coming of age avvincente che, limitando gli spazi di movimento dei personaggi, crea un ritmo serrato e prepotente, in cui lo spettatore è sempre più coinvolto nella vita della protagonista.
Shiva Baby racconta la storia di Danielle, giovane ragazza ebrea e bisessuale, che guadagna qualche soldo grazie ad un’app di sugar baby. Si tratta di ragazze, spesso studentesse universitarie, che hanno prestazioni sessuali con uomini molto più vecchi di loro (gli sugar daddy) in cambio di un qualche tipo di sostentamento economico. Durante la shiva di una lontana amica di famiglia, Danielle si troverà a dover affrontare i giudizi della madre e dalla comunità ebraica di cui fa parte, ma non solo. La situazione precipiterà ulteriormente quando si presenteranno a casa della defunta anche Maya (Molly Gordon), la sua ex fidanzata, e Max (Danny Deferrari) il suo sugar daddy, accompagnato dalla moglie e dalla figlia neonata. In un crescendo di scontri verbali e pressioni sociali, la tensione salirà fino a raggiungere un punto di rottura.
Tra le molte questioni affrontate dalla giovane regista in Shiva Baby, la più evidente riguarda quella degli sugar daddy, fenomeno particolarmente diffuso negli Stati Uniti – Paese che purtroppo presenta anche un enorme problema di debiti universitari. Il caso di Danielle è però particolare, in quanto i genitori la sostengono economicamente e, vivendo con loro, non ha spese particolarmente onerose. La sua scelta di diventare sugar baby è quindi legata alla dimensione del potere, in quanto questo tipo di relazione le consente di sentirsi in controllo della propria vita. Si tratta però di un’illusione: il rapporto tra lei e Max non è altro che una relazione tossica, che in qualche modo l’ha spinta ad allontanarsi dalla sua ex ragazza Maya. Nel film, le due relazioni – così come altri aspetti della vita di Danielle come il lavoro e lo studio, puntualmente oggetto di discussione con i suoi genitori – costituiscono per la protagonista prove della sua inadeguatezza e della sua incapacità di attenersi agli standard imposti dalla comunità ebraica.
Sullo schermo la pressione sociale e questa sensazione di inadeguatezza vengono rappresentate da Seligman attraverso una serie di scelte registiche particolarmente interessanti e ben organizzate: lunghi primi piani, soggettive deformate dal basso verso l’alto e movimenti di macchina limitati, che contribuiscono a restituire una sensazione di chiusura e claustrofobia. A questo si aggiunge un accompagnamento sonoro incalzante, che spinge lo spettatore sempre più verso il climax.
Gianluca Tana