“The Lost Daughter” di Maggie Gyllenhaal – Recensione (Venezia 78)

The Lost Daughter

Raccontare con sincerità le difficoltà e le gioie di essere madre è, da sempre, un’impresa che pochi registi sono riusciti a rappresentare con successo tramite suoni e immagini. Pieces of a Woman, Lady Bird, Tully e Juno sono solamente alcuni dei film dell’epoca contemporanea che hanno trattato l’argomento sotto diversi aspetti e con narrazioni differenti ma, in tutti questi casi, l’obiettivo del loro autore ha pienamente centrato il bersaglio rappresentando tipologie di donne ed emozioni eterogenee e mai banali. Spostandoci nel mondo letterario, non troppo lontano da quello cinematografico, una delle autrici contemporanee che più è riuscita a raccontare la figura della donna e il rapporto madre-figli è sicuramente l’italiana Elena Ferrante, autrice dell’acclamatissima serie di romanzi adattati per il piccolo schermo nel successo internazionale de L’amica geniale. È proprio la penna di Elena Ferrante che torna figuratamente alla Mostra del Cinema di Venezia sotto le vesti di The Lost Daughter, adattamento cinematografico portato sul grande schermo dall’attrice Maggie Gyllenhaal al suo debutto alla regia.

Dopo Roberto Faenza, che aveva portato alla Mostra una trasposizione del romanzo dell’autrice napoletana I giorni dell’abbandono, Gyllenhaal presenta la sua personale visione delle pagine de La figlia oscura, spostando la narrazione dalle terre del Sud Italia alle assolate spiagge della Grecia più recondita. Leda, ormai raggiunta la mezza età, decide di prendersi una pausa dalla frenetica vita da insegnante e madre per concedersi un viaggio in solitaria nelle ospitali coste greche. L’incontro con una giovane famiglia e un suo gesto innocente quanto in realtà crudele innestano, però, una serie di ricordi e consapevolezze che porteranno la donna a riflettere sulla sua vita passata e presente rendendo la piccola parentesi greca tutt’altro che tranquilla.

The Lost Daughter

Se dal punto di vista registico si notano delle piccole ingenuità tipicamente riferibili alla ricerca acerba di una propria firma della storia sia dal punto vista tecnico sia narrativo, la direzione dell’attrice principale è, invece, veramente interessante e incisiva. L’innata capacità interpretativa di Olivia Colman, unita al dosaggio emotivo perfetto sicuramente ricercato dalla regista, danno luogo alla costruzione di un personaggio completo e sfaccettato che riesce a raccontare la sua emotività con pochissime parole e tanta espressività. Lo stesso profondo trattamento vale anche per l’interprete della giovane Leda, l’attrice Jessie Buckley, che travolge il pubblico con la sua grande sincerità interpretativa.

Le due attrici che interpretano le due versioni di Leda sono assolutamente imparagonabili al resto del cast che, invece, passa inosservato sullo sfondo dello schermo e della narrazione, senza godere di una particolare attenzione dal punto di vista registico. Se questa scelta può sicuramente funzionare nella narrazione, poiché si lascia spazio esclusivamente al punto di vista di Leda, registicamente parlando questa opzione risulta come solamente accennata e poco approfondita: sarebbe stato bello poter scrutare direttamente dagli occhi di Leda e più da vicino ciò che la circonda e la turba in un modo così perverso.

The Lost Daughter rappresenta un buonissimo debutto per Maggie Gyllenhaal dietro la macchina da presa, con un’opera prima che ha il sentore tipico dell’indie ma che potrebbe riservarci molte sorprese anche in generi e produzioni differenti. Ciò non vuol dire che il film scelto per partecipare al concorso di Venezia sia perfetto, tutt’altro, ma, se le premesse sono queste, non ci rimane altro che aspettare di vedere ciò che ancora ci potrà riservare il futuro della carriera della regista statunitense.

Le recensioni di Venezia 78

Erica Nobis