“The Power of the Dog” di Jane Campion – Recensione (Venezia 78)

The Power of the Dog

Sono passati ormai 28 anni da Lezioni di piano, vincitore ex aequo della Palma d’oro al Festival di Cannes del 1993 insieme ad Addio mia concubina di Chen Kaige, e Jane Campion prova a replicarne il successo con l’ardito The Power of the Dog, questa volta in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Tra Lezioni di piano e il nuovo atipico western con protagonisti Benedict Cumberbatch e Kirsten Dunst ci sono stati in mezzo diversi film non particolarmente brillanti e, in tempi recenti, una miniserie di successo, Top of the Lake, che ha rilanciato la regista neozelandese e ricatturato l’interesse globale verso il suo lavoro.

The Power of the Dog, di fatto, è il suo primo lungometraggio dopo 12 anni, un racconto ispirato al romanzo omonimo di Thomas Savage del 1967, ambientato negli aridi territori del Montana negli anni ’20 del Novecento. L’allevatore Phil Burbank (interpretato appunto da Benedict Cumberbatch, perfettamente calato nella parte) è un cowboy sopra le righe, ancora legato ad una visione dell’uomo quasi primitiva, particolarmente ostile specialmente nei confronti di Rose, una vedova che si risposa proprio con il fratello di Phil, George (Jesse Plemons). L’animosità dell’uomo anche verso il figlio della donna, Peter (Kodi Smit-McPhee), renderà difficile la quotidianità dei due, tormentati dalla sua figura autoritaria. A differenza di Lezioni di piano e della maggior parte dei film di Campion, in cui il punto di vista preponderante è perlopiù femminile, in The Power of the Dog la regista neozelandese si trova a dare forma ad un racconto che assume una precisa prospettiva maschile, non solo rappresentata dall’attitudine aspra ed impetuosa di Phil, ma anche dalla personalità apparentemente più fragile e delicata di Peter.

The Power of the Dog

Diviso in atti, il nuovo film di Jane Campion ci illustra il progressivo collasso identitario di Rose, incapace di lasciare alle spalle il suo passato difficile e tormentata dalla difficoltà di adattarsi alla vita nel ranch di Phil. The Power of the Dog è uno studio caratteriale, concentrato più a mostrarci il flusso di vita dei suoi protagonisti e le loro difficoltà nel relazionarsi in un contesto complicato dalla volontà di potenza di Phil, a tratti grottesca e sicuramente fuori luogo, rispetto al proiettare queste pulsioni realmente verso l’esterno.

Da questo punto di vista, la forza e allo stesso tempo la debolezza di The Power of the Dog risiedono proprio nel suo elemento strutturale e fondante, ossia il focus sulla dimensione interiore dei personaggi e la sua tiepida canalizzazione nel loro agire. Al film di Jane Campion manca un po’ di grinta e di intensità, sebbene gli aspetti che potrebbero invece permettere di muoversi in tal senso siano indiscutibilmente presenti, per quanto latenti. Un passo ulteriore, specialmente nell’esplorazione del rapporto tra Phil e Peter, avrebbe sicuramente giovato ad un film che, in ogni caso, testimonia un buon ritorno sulle scene per la regista neozelandese.

Le recensioni di Venezia 78

Daniele Sacchi