The Promised Land di Nikolaj Arcel, la recensione del film (Venezia 80)

The Promised Land

Dopo l’intrigante Royal Affair, candidato al Premio Oscar al miglior film straniero nel 2013 e trampolino di lancio per la carriera di Alicia Vikander, il regista danese Nikolaj Arcel aveva cercato senza successo la via hollywoodiana con un orribile adattamento della saga de La torre nera di Stephen King, un mero prodotto di intrattenimento vuoto e senz’anima che non rendeva giustizia al materiale di riferimento. Abbandonata questa via, Nikolaj Arcel è tornato a lavorare in Danimarca. E, lo dobbiamo dire, per fortuna lo ha fatto. The Promised Land, il suo nuovo film presentato in concorso all’80esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è un’esperienza cinematografica folgorante.

Il secolo è il diciottesimo, lo scenario è quello della brughiera danese. Convinto di poterla rendere abitabile, il capitano Ludvig Kahlen (Mads Mikkelsen) riesce ad ottenere il permesso dal re per cercare di fondarvi una colonia e di conseguenza ottenere, dopo anni di povertà e di servizio militare, un titolo nobiliare. L’impresa, tuttavia, non sarà affatto semplice. La brughiera è un territorio inospitale, Kahlen è da solo e il tirannico sovrano locale, Frederik de Schinkel (Simon Bennebjerg) è intenzionato ad ostacolare il progetto, convinto di essere il legittimo proprietario del terreno.

L’idea narrativa di The Promised Land sembra suggerire che il film sia di fatto un racconto di uomini, di rivalità e di scontri politici in pura chiave settecentesca. Il film di Nikolaj Arcel è anche questo, ma a stupire realmente, al contrario, è il vigore e la potenza dello sguardo femminile. La domestica Ann Barbara (Amanda Collin), l’aristocratica Edel (Kristine Kujath Thorp), la nomade Anmai Mus (Melina Hagberg) sono tutte vittime di un sistema che, in un modo o nell’altro, mira ad arginare o ad annullare la loro umanità, il loro valore come persone e come donne. Ann Barbara fugge dagli abusi di de Schinkel, Edel è obbligata dalla famiglia a prenderlo come marito, mentre la piccola Anmai Mus è ostracizzata per il colore della sua pelle.

In questo clima burrascoso alimentato dalle angherie e dai soprusi di Frederik de Schinkel, il progetto di Ludvig Kahlen smetterà presto di essere solamente una mera ricerca di riconoscimento individuale per assumere i tratti di qualcosa di più grande, qualcosa che finirà per assomigliare ad una famiglia. Tra il dramma storico e il western, The Promised Land concentra tutto attorno alla figura del “bastardo” Kahlen (perfetto, in tal senso, è il titolo originale Bastarden), bastardo non solo per la ruvidità della sua persona, ma anche per le sue particolari origini familiari che, nell’economia del racconto, contribuiscono ad assegnare un ulteriore strato interpretativo al film.

Attorno a Kahlen, alla sua rigidità, alle sue scelte corrette ma anche ai suoi errori, tutto si costruisce, si sgretola, si ricompone e crolla di nuovo. Dal micro al macro, dall’attenzione ai piccoli dettagli (il bastone come oggetto che non divide, ma che unisce) sino alla maestosità dei campi lunghi raffiguranti i bellissimi paesaggi danesi, dall’enfasi sulle azioni nefaste di de Schinkel sino alla messa in scena di un lirismo visivo bucolico atmosferico e a modo suo mitizzante, The Promised Land è una visione essenziale.

Le recensioni di Venezia 80

Critical Eye è una piattaforma indipendente. Se trovi i contenuti del sito di tuo gradimento, sostieni il nostro lavoro.

Daniele Sacchi