Poor Things di Yorgos Lanthimos, la recensione (Venezia 80)

Poor Things

Godwin Baxter (Willem Dafoe), soprannominato God (l’ironia è evidente), è uno scienziato folle. Con i suoi misteriosi esperimenti è riuscito a riportare in vita Bella (Emma Stone), una ragazza morta suicida. Bella, tuttavia, non è più la stessa persona di prima, è una bambina nel corpo di un’adulta, possiede scarse capacità coordinative e assimila i concetti molto lentamente. L’assistente di God, Max McCandles (Ramy Youssef) si innamora della ragazza e sogna di sposarla, ma l’arrivo di un nuovo spasimante, il dissoluto avvocato Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), porterà la ragazza a fuggire insieme a lui con l’obiettivo di scoprire il mondo e perseguire finalmente la libertà. Con Poor Things (Povere creature! il titolo italiano), il regista greco Yorgos Lanthimos adatta il romanzo omonimo di Alasdair Grey esplorando territori visivi nuovi, senza però perdere l’anima glaciale, cinica e pungente che contraddistingue il suo cinema.

Presentato in concorso all’80esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, l’attesissimo film di Lanthimos si getta a capofitto tra atmosfere variopinte che, a tratti, ricordano il cinema di Tim Burton. Parigi, Lisbona, Alessandria d’Egitto, Londra: tutti gli scenari di Poor Things sono affreschi surreali contenenti solamente una traccia di ciò che sono in realtà, scelta che aiuta nel sottolineare a dovere le tinte quasi fiabesche del film. La matrice di fondo, però, è sempre quella lanthimosiana, tra grandangoli, distorsioni, ironia tagliente e gusto per il macabro. E soprattutto, Lanthimos non ha paura (forse perché è europeo, in America il clima è differente) di parlare apertamente di sessualità, di esibire il corporeo, di rendere il sesso l’asse portante del suo film in un’epoca in cui, sul grande schermo, si rischia poco temendo la censura peggiore di tutte, quella di Internet e dei social media.

Il regista greco – giustamente – è maggiormente interessato a dare libero sfogo alla sua visione artistica. Nel corso di Poor Things, Bella parte alla scoperta del mondo, e lo fa appunto attraverso il sesso. In particolare, Bella, nella sua ingenuità semi-infantile, dovrà comprendere presto cosa significa essere donna all’interno di un Reale strutturato secondo le dinamiche proprie del paradigma machista. Ma a differenza dei moralismi-pattumiera di un film marchetta come Barbie, Lanthimos non si affida ai sermoni o alla ripetizione ossessiva di parole chiave, ma lascia che siano le qualità immaginifiche del medium cinematografico a parlare per lui. In questo, Poor Things emerge come un poderoso inno emancipatorio che vive unicamente attraverso la potenza delle sue immagini.

Da oggetto a soggetto, da bambola-Frankenstein a donna, Bella entra progressivamente a contatto con la natura del mondo, un mondo fatto di uomini manipolativi e gradassi come Wedderburn, di puttanieri, di esseri immondi e violenti come lo spregevole Alfie Blessington (Christopher Abbott). Non può mancare, però, anche un moto contrario, più conciliatorio, nello specifico nella comprensione del valore dell’amore paterno di Godwin Baxter e della bontà del sentimentalismo di Max. Bella si incanala dunque in una direzione di vita che la porterà a riappropriarsi del proprio corpo, alla ricerca di una libertà genuina, senza vincoli di sorta, morali o sociali che siano. Il percorso tracciato da Yorgos Lanthimos è netto, concreto, chiarissimo. L’autore greco non sacrifica nulla in nome della sua arte cinematografica e il messaggio arriva lo stesso, limpido, in quello che è uno dei film più convincenti e lucidi della sua carriera.

Le recensioni di Venezia 80

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Daniele Sacchi