“Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci – Recensione

Ultimo tango a Parigi

Ultimo tango a Parigi (Bernardo Bertolucci, 1972) è probabilmente uno dei film più controversi e discussi della storia del cinema. Non tanto per le sue qualità o per il suo valore artistico, purtroppo, quanto per le polemiche attorno ad una particolare sequenza di violenza sessuale attorno alla quale l’attrice protagonista, Maria Schneider, ha dichiarato di essersi sentita «quasi violentata» (cfr.) da Marlon Brando, sebbene a detta di diversi membri della crew, tra i quali il leggendario direttore della fotografia Vittorio Storaro, non sarebbe successo «assolutamente nulla» (cfr.).

Oltre a ciò, il film di Bertolucci è stato soggetto in Italia, negli anni successivi alla sua prima proiezione, a un lungo processo che ha portato al suo ritiro dalle sale per ben 15 anni, a causa del suo «esasperato pansessualismo fine a se stesso» volto a «solleticare i deteriori istinti della libidine con crude, ributtanti e veristiche rappresentazioni carnali anche innaturali» (cfr.). Al di là della sua seppur interessante storia processuale e scandalistica, però, non bisogna dimenticare come Ultimo tango a Parigi sia prima di tutto un’opera dall’indubbio valore estetico e cinematografico, che merita dunque di essere approfondita anche a partire dai suoi effettivi contenuti rappresentativi.

Ultimo tango a Parigi racconta nello specifico l’incontro tra due universi distanti, in una evidente quanto estremamente conturbante tensione che li predispone l’uno di fronte all’altro, determinando una paradossale commistione reciproca all’interno della quale le dinamiche dualistiche che confrontano la dimensione dell’attrazione e quella della repulsione si trovano a ricoprire un ruolo fondamentale. Bernardo Bertolucci svolge un’indagine che prende le mosse dalla sessualità e dalle logiche governanti i meccanismi di liberazione del desiderio per mostrare la propria personale visione dell’uomo nella sua relazione, prima ancora che con l’alterità, con se stesso.

Ultimo tango a Parigi

Ultimo tango a Parigi è infatti un film profondamente unidimensionale nella descrizione dei suoi personaggi e dunque radicalmente incentrato sullo studio caratteriale dei due protagonisti, Paul (Brando) e Jeanne (Schneider), entità pensate come profondamente separate e quasi costrette all’imbastire un amore artificiale che possa unirle, in un disperato tentativo da parte dell’uomo di celare il trauma della perdita e da parte della donna di trovare un punto fermo nella propria vita. Amore artificiale il quale, grazie alla guida di una sessualità trainante e burrascosa, finisce per apparire, sia allo sguardo spettatoriale sia, forse, ai suoi protagonisti, quasi come reale.

Tuttavia, la “bugia” che si cela nella definizione del legame amoroso di Paul e Jeanne sembra destinata a disvelarsi sin dal momento del suo concepimento – durante il primo impetuoso incontro tra i due – con una ferocia annichilatoria e distruttiva che si trova ad essere intrinsecamente legata alle differenze irrisolvibili che uniscono e che allo stesso tempo separano l’uomo e la donna. La relazione tra Paul e Jeanne è un costrutto irrazionale che si sostiene sulla stessa impossibilità del proprio manifestarsi, in un gioco sia fisico sia mentale che è destinato a soccombere in virtù della sua precarietà e instabilità esistenziale.

Da un punto di vista stilistico, Bernardo Bertolucci e Vittorio Storaro presentano un contesto visivo coerente con se stesso nell’alternanza tra le strade parigine e gli interni dell’appartamento di Paul e Jeanne, grazie al frequente ricorso all’arancione, in netto contrasto con l’azzurro de Il conformista (1970). I riferimenti alla produzione artistica di Francis Bacon, inoltre, sono molteplici, come mostrato ad esempio in apertura del film nel paragone tra i protagonisti e le due opere Double Portrait of Lucian Freud and Frank Auerbach (1964, presentato solamente nella sua parte sinistra) e Study for a Portrait of Isabel Rawsthorne (1964). Ultimo tango a Parigi è dunque un racconto ricercato e studiato in ogni suo piccolo dettaglio, un lavoro egregio che, a quasi 50 anni dalla sua uscita, merita di essere ricordato soprattutto per le sue grandi qualità intrinseche, piuttosto che per le controversie che hanno costellato la vita artistica della pellicola.

Daniele Sacchi