A Complete Unknown, la recensione del film di James Mangold

A Complete Unknown, un completo sconosciuto. Come tale si presenta Bob Dylan al cospetto della leggenda del folk Woody Guthrie agli inizi della sua carriera e come tale rimane, nonostante la popolarità, una volta conclusa l’epopea sixties che James Mangold dedica al cantautore americano. È una figura sfuggente, a tratti incomprensibile, Bob Dylan. Un animo misterioso, libero e rivoluzionario, un simbolo che può solamente essere interpretato. Lo sa bene Timothée Chalamet che, con la sua miglior prova attoriale (ad oggi), cattura tutta l’essenza del menestrello di Duluth, sia nella mimesis sia nell’esecuzione performativa, affiancato da una altrettanto eccezionale Monica Barbaro nei panni di Joan Baez.

La presenza di Mangold dietro alla macchina da presa non è una sorpresa. D’altronde, per raccontare la storia di uno dei più grandi poeti statunitensi del Novecento, non poteva che occuparsene un autore quintessenziale per il cinema americano degli ultimi trent’anni, un regista che ha dimostrato di saper rimodulare generi vetusti (Quel treno per Yuma), di far rivivere icone attempate (Indiana Jones e il quadrante del destino), di saper reinventare le mode del momento (Logan). Un regista che sa riflettere su un certo lascito storico-culturale-sportivo (Ford v Ferrari) e che (cosa rara!) conosce anche lo sguardo femminile (Ragazze interrotte). Ma soprattutto, un autore che con Walk the Line ha lanciato uno dei tanti trend del contemporaneo, il biopic a tema musicale, un calco che tanti negli ultimi anni, da Bohemian Rhapsody a Elvis, hanno ripreso.

A Complete Unknown, in questo, non va certamente a rivoluzionare le strutture e i codici del genere di riferimento, bensì si presenta come un’indagine semplice, lineare e essenziale sull’aura di Bob Dylan. Nello specifico, James Mangold adatta insieme a Jay Cocks – lo sceneggiatore de L’età dell’innocenza e di Gangs of New York di Martin Scorsese, per citarne un paio – il libro biografico di Elijah Wald, Dylan Goes Electric!, dedicato all’esibizione shock di Bob Dylan al Newport Folk Festival del luglio ’65, quando il cantautore decise di suonare per la prima volta in elettrico, scatenando le ire dei presenti. Ma l’evento in sé è solamente il punto di arrivo di un percorso che prende le mosse dalla nascita e dal successo del Freewheelin’ Bob Dylan, dal suo rapporto con la compagna Suze Rotolo (nel film Sylvie Russo, interpretata da Elle Fanning), dal sodalizio artistico e amoroso con Joan Baez, nonché dal confronto con i miti dell’epoca, dal già citato Guthrie (Scoot McNairy) a Pete Seeger (un magistrale Edward Norton), sino ad arrivare al magnetico incontro con Johnny Cash (Boyd Holbrook).

Come per Paul Atreides in Dune, anche qui Timothée Chalamet si trova a dover mettere in atto un processo trasformativo. In A Complete Unknown, al canone della tradizione cantautoriale americana viene mano a mano contrapposta la libertà artistica e creativa di un’individualità a modo suo esplosiva, impossibile da inquadrare e da arginare. Certo, non siamo nei territori più reinterpretativi e sperimentali di un’opera come Io non sono qui di Todd Haynes, ma è nella scelta di una strada più diretta, “appetibile”  se vogliamo, che A Complete Unknown riesce comunque a convincere. Ed è in questo scarto che il film di Mangold si posiziona non solo come mero biopic ma come vero e proprio film concerto dove, da un brano all’altro, Dylan si sottopone ad un mutamento che è sia musicale sia di approccio alla vita, tra rapporti che si sfaldano e miti che cadono. Con, però, un’unica certezza: it’s all over now, Baby Blue.

Daniele Sacchi