“A Star is Born” di Bradley Cooper – Recensione

A Star is Born

A Star is Born (2018), o, volendo, una delle storie più arcaiche di Hollywood. Chiedersi infatti se fosse necessario un terzo remake di È nata una stella (1937, William Wellman) dopo le due operazioni di successo di George Cukor del 1954 e di Frank Pierson del 1976, con protagoniste le coppie formate da Judy Garland e James Mason il primo e Barbra Streisand e Kris Kristofferson il secondo, potrebbe apparire inizialmente come un dubbio legittimo.

La risposta a tale interrogativo tuttavia è banale nella sua semplicità: il bisogno di adeguare un classico della cinematografia hollywoodiana allo Zeitgeist contemporaneo sembra darsi come una necessità archetipale che vede la riproposizione dell’idea dell’amore tragico come il suo scopo rappresentativo primario. Un bisogno, dunque, che richiede di essere colmato nella ripetizione del già noto in un upgrade moderno. Così, A Star is Born, lungometraggio d’esordio di Bradley Cooper dietro la macchina da presa, si inserisce a fianco dei suoi predecessori come l’ennesima iterazione della stessa storia riuscendo tuttavia, e sorprendentemente, a non risultare come eccessivamente derivativo nel suo adeguarsi agli standard propri del mélo.

A trainare la pellicola è la coppia di amanti Jack e Ally, interpretati dallo stesso Cooper e dall’icona pop Lady Gaga, al suo primo vero ruolo di protagonista sul grande schermo dopo le piccole parti recitate in Machete Kills (2013, Robert Rodriguez) e in Sin City – Una donna per cui uccidere (2014, Frank Miller e Robert Rodriguez), senza comunque dimenticare il successo ottenuto in seguito alle sue suggestive interpretazioni nella serie tv antologica di FX American Horror Story. Nell’intessere i fili della storia d’amore di Jack e Ally, Cooper decide di utilizzare al meglio le qualità canore di Lady Gaga per far assumere alla sua voce il ruolo di vera e propria protagonista dell’opera, tracciando le varie tappe del film in parallelo al suo progressivo addentrarsi nel vasto orizzonte rappresentato dall’industria musicale.

A Star is Born

La musica, così come nelle precedenti versioni del film, si pone a tal proposito in una posizione predominante nel corroborare lo sviluppo delle dinamiche intersoggettive tra i due amanti, plasmando la loro relazione sin dal loro primo incontro. Jack infatti, un cantautore rock alcolizzato dal passato burrascoso, incontra per la prima volta Ally in un night club mentre canta La vie en rose di Édith Piaf e rimane folgorato dalla sua esibizione. A partire da questo momento, Jack seguirà passo dopo passo l’ascesa nel mondo della musica di quella che poi diventerà a tutti gli effetti la sua compagna, osservandone la trasformazione musicale ma allo stesso tempo accrescendo gradualmente il proprio distacco empatico con la realtà, in concomitanza con il progressivo crollo psicologico, causato dalla sua dipendenza alcolica, che presto lo colpirà e che darà uno scossone in negativo alla sua stessa carriera.

In tal senso, A Star is Born appare come un film molto più interessante da osservare se pensato non come il musical che di fatto non è, bensì come un interessante studio sui personaggi. La personalità tormentata di Jack è agli antipodi rispetto all’ecletticità di Ally, binomio vivente e ossimorico tra l’estro della sua produzione musicale e la misuratezza della sua personalità reale. Lo scarto caratteriale tra i due è abissale, ma questo non impedisce alla coppia di restare unita e di accettare le proprie differenze, persino quando i drammi del passato di Jack si ripercuotono pesantemente sul presente e in particolar modo sulla loro convivenza.

In ultima analisi, dunque, il lungometraggio d’esordio di Bradley Cooper racchiude dentro di sé tutte quelle caratteristiche che rendono il cinema un’arte che fa del pathos, nella sua accezione primordiale di grandezza, passione e impeto estetico, uno dei suoi punti di forza. A Star is Born si dà pertanto come un ottimo esempio all’interno della produzione hollywoodiana contemporanea di un film che riesce nel raccogliere gli stereotipi del mélo riproponendoli brillantemente, mostrandoci come il già detto possa a volte essere forte tanto quanto il materiale di riferimento che vorrebbe omaggiare.

Daniele Sacchi