“Stati di allucinazione” di Ken Russell – Recensione

Stati di allucinazione

L’unica verità assoluta è che non esiste una verità assoluta.

Eddie Jessup (un esordiente William Hurt) è un giovane psicopatologo che, durante il suo percorso di studi sulla schizofrenia, giunge a ritenere che gli stati alterati della coscienza siano reali e tangibili tanto quanto quelli di veglia. La sua ricerca lo porterà durante Stati di allucinazione (Ken Russell, 1980) a testare in prima persona queste alterazioni coscienziali attraverso l’utilizzo di una vasca di deprivazione sensoriale, uno strumento che gli permette di restare isolato durante i suoi esperimenti e di non essere dunque influenzato da alcun elemento esterno mentre il suo collega Arthur, interpretato da Bob Balaban, monitora la sua attività cerebrale.

L’opera di Russell è un adattamento del romanzo omonimo scritto dal celebre sceneggiatore Paddy Chayefsky, autore che realizzò peraltro la sceneggiatura del film stesso prima di richiedere la rimozione del suo nome dai crediti del progetto a causa di diverse divergenze creative con il regista. Il film, così come il libro da cui è tratto, si basa sugli studi condotti dallo scienziato John C. Lilly sulla deprivazione sensoriale, una pratica sperimentale di ricerca condotta sotto l’influenza di varie sostanze stupefacenti in specifiche vasche isolate. Stati di allucinazione tuttavia non vuole essere un biopic su Lilly, ma un film che, a partire dalle intuizioni dello stesso, ha come obiettivo specifico il riflettere sulla condizione mentale dell’essere umano e soprattutto su ciò che ci determina come tale, assumendo i tratti di una vera e propria analisi filosofica dai forti tratti camp sull’origine stessa del concetto di umanità.

Stati di allucinazione

Guardando al di là delle sue ingenuità, come l’asettica e pleonastica love story tra il protagonista e un’antropologa di nome Emily (Blair Brown), Stati di allucinazione ci mostra di fatto il percorso di introspezione di Jessup alla ricerca di quelle verità universali celate che tutti vorremmo, nel profondo, conoscere. L’indagine spirituale dello scienziato lo porterà a recarsi persino in Messico per procurarsi un potente allucinogeno per alterare ulteriormente la sua coscienza, in modo da amplificare la sua esperienza con la vasca di deprivazione sensoriale. Il risultato del viaggio è il piatto forte del film sul piano visivo ed estetico, in quello che è un marchio di fabbrica della regia di Russell: lunghe sequenze allucinatorie dal forte impatto simbolico che finiranno progressivamente per consumare Jessup, conducendolo a osare sempre di più nei suoi esperimenti, ponendolo infine di fronte all’archetipa ferinità e crudeltà primitiva dell’essenza umana, sia spiritualmente sia fisicamente.

L’incontro/scontro con il Sé originario è tuttavia sia una liberazione sia una condanna per Jessup, nel suo rilevare come la verità assoluta che andava cercando non era nient’altro che la sua stessa assenza, in un sublime disincanto che lo porterà a rischiare di perdere l’integrità della sua coscienza in una regressione ad una forma protocoscienziale. Comprendendo l’inutilità nichilista del suo viaggio di ricerca, Jessup porterà infine a compimento un processo di rinascita che lo vincolerà nuovamente alla materialità grazie al suo legame con Emily, un particolare che si dimostrerà essenziale nel mantenerlo ancorato alla nostra realtà.

A cavallo tra indagine metafisica e b-movie di fantascienza, Stati di allucinazione si inserisce nella filmografia di Ken Russell, insieme ad un’opera molto diversa ma intrinsecamente affine come I diavoli (1971), come un film che cerca di mettere in luce alcuni aspetti conturbanti dell’essere umano, in grado di descrivere quelle realtà che si danno come irrimediabilmente presenti nella loro stessa essenza celata. Un risultato che il regista britannico può vantarsi di essere riuscito a raggiungere con una produzione così bizzarra ed estrosa come Stati di allucinazione, un’opera che, per quanto multiforme e a tratti kitsch, non può che apparire nel complesso come un grande risultato cinematografico.

Daniele Sacchi