Bait di Mark Jenkin, la recensione

Bait

In un villaggio di pescatori in Cornovaglia si respira un forte clima di tensione tra gli abitanti locali e i turisti. La gentrificazione della zona ha infatti condotto alcune famiglie, come i Leigh, ad avviare un business di affitti brevi, suscitando malumori e alterando sensibilmente le dinamiche del villaggio. Il pescatore Martin Ward (interpretato da Edward Rowe), duro lavoratore che lotta quotidianamente per accumulare abbastanza denaro per poter acquistare una barca, soffre particolarmente la situazione, specialmente dopo aver venduto il cottage di famiglia ai Leigh. L’intreccio di Bait di Mark Jenkin, a prima vista, sembra racchiudere in sé tutte le caratteristiche tipiche di un cinema neorealista prono ad indagare metodicamente i drammi del Reale, ma il film è ben lontano dal proporsi solamente come una mera operazione di tal genere.

Se da un lato Jenkin riprende la lezione del kitchen sink inglese degli anni ’50 e ’60, prendendo le mosse da un realismo sociale teso ad illustrare da vicino la vita e i problemi della working class, dall’altro lato il regista britannico persegue un punto di vista oggi atipico, incentrato interamente sulla materia filmica – il film è girato in bianco e nero con una vecchia Bolex 16mm – lavorando soprattutto di montaggio e di audio design. Rifacendosi al suo personalissimo manifesto, il Silent Landscape Dancing Grain 13, Jenkin si fa promotore con la sua proposta cinematografica dei «benefici pratici ed estetici della celluloide fatta a mano», mescolando princìpi pratici simil-Dogma 95 alla centralità della post-sincronizzazione sonora.

In tal senso, Bait rifugge da ogni forma di realismo “veritiero” andando a scardinare operativamente l’immagine filmica, muovendosi alla ricerca di un’effettiva libertà dell’immagine con lo scopo di individuare nuove associazioni segniche, interfacciandosi direttamente con il linguaggio cinematografico e le sue possibilità. Nello specifico, la scelta di ricorrere ad un sonoro interamente post-prodotto attribuisce a Bait delle qualità oniriche e toni quasi orrorifici, allontanandosi visibilmente dalle sue peculiarità più esplicitamente neorealiste e ragionando maggiormente in termini di atmosfera e di surrealtà. In questo modo, le fatiche e le difficoltà del pescatore protagonista del film, nonostante le specificità del soggetto e del setting, finiscono per riecheggiare universalmente, protendendosi verso lo spettatore con una forza imprevista che scaturisce proprio da una libertà puramente immaginifica.

Con Bait, Mark Jenkin sceglie dunque la via della giustapposizione, affiancando suggestioni formaliste di stampo sovietico e marcate derive sperimentali alle criticità e ai drammi del Reale. Non si tratta ovviamente di nulla di nuovo in termini assoluti, ma è sicuramente un approccio singolare nel panorama cinematografico contemporaneo, una prospettiva che se proiettata ad esempio nel cinema di genere – il film successivo di Jenkin, Enys Men, è infatti un folk horror – può trovare spazi di manovra e di espressione ancora più proficui.

Daniele Sacchi