Cabinet of Curiosities di Guillermo del Toro, la recensione

Cabinet of Curiosities

Guillermo del Toro propone la sua Twilight Zone personale con la serie antologica Cabinet of Curiosities, 8 episodi standalone – di fatto mediometraggi – realizzati ciascuno da un regista differente, volti ad esplorare i vastissimi reami dell’immaginario horror attraverso suggestioni e angolazioni sempre diverse e singolari. Del Toro, produttore e curatore della serie, introduce personalmente ogni episodio – richiamando esplicitamente quanto accadeva nella celebre serie degli anni ‘50 Alfred Hitchcock presenta – in un’operazione che con il suo format particolare porta con sé un sapore di altri tempi, senza che questo debba necessariamente apparire come un difetto e, anzi, riuscendo di fatto ad emergere come un prodotto sopra la media rispetto al panorama seriale tipico offerto da Netflix.

Il primo episodio, Lotto 36, è tratto da un racconto scritto dallo stesso Guillermo del Toro e diretto da un frequente collaboratore del regista messicano, il direttore della fotografia Guillermo Navarro (vincitore del Premio Oscar per Il labirinto del fauno). Tim Blake Nelson è Nick, un repubblicano xenofobo che si è aggiudicato tramite un’asta la proprietà di un magazzino abbandonato. Intenzionato a rivendere tutto il contenuto di valore del lotto per ripagare un debito criminale, Nick si troverà però a fare i conti con un problema inaspettato, dagli inquietanti risvolti esoterici. Se da un lato il tema del razzismo, specialmente nei confronti degli immigrati messicani negli Stati Uniti, è solamente accennato e poco esplorato, dall’altro lato Lotto 36 offre una prima incursione in ciò che Cabinet of Curiosities desidera realmente offrire attraverso la sua indagine sulle derive dell’immaginario horror, mescolando – anche con una sottile ironia di fondo, evidenziata in particolare nel personaggio del morboso Roland – l’aspetto umano all’aspetto più “fantastico” e orrorifico.

Questa attitudine prosegue anche nel successivo I ratti del cimitero, un adattamento dell’omonimo racconto di Henry Kuttner scritto e diretto da Vincenzo Natali. Il regista dello sperimentale Cube – Il cubo offre qui un’esperienza più misurata e goticheggiante, tra Edgar Allan Poe e H.P. Lovecraft (amico peraltro di Kuttner), con David Hewlett come protagonista nei panni di un profanatore di tombe alla disperata ricerca di denaro. Piacevole e a tratti divertente, I ratti del cimitero unisce all’intelligente scrittura del suo protagonista una progressiva esplorazione dell’avidità, individuando in certi comportamenti umani una coazione a ripetere – apparentemente ineliminabile – nella storia, tra ratti reali e metaforici.

Tra i momenti più interessanti di Cabinet of Curiosities spicca il successivo episodio L’autopsia, diretto da David Prior e sceneggiato da David S. Goyer. Il dottor Winters (F. Murray Abraham) sottopone ad autopsia diversi cadaveri di persone decedute dopo il crollo di una miniera, avvenuto in seguito all’esplosione di un ordigno di origine sconosciuta, con l’obiettivo di scoprirne la reale causa di morte. Prior riprende gli elementi più interessanti del suo lungometraggio d’esordio, The Empty Man, ricercando lo straordinario nell’ordinario, permeando la messa in scena di elementi di origine incerta e suggerendo in diverse occasioni l’intento di esplorare almeno in superficie le frontiere proprie dell’orrore cosmico lovecraftiano. Senza tirarsi indietro sul piano visivo, L’autopsia spinge anche sul versante gore affiancando alla mutilazione del corpo alcune derive più mistiche e metafisiche, in un mélange nel complesso ben riuscito.

L’apparenza, diretto da Ana Lily Amirpour, si focalizza invece su un personaggio eccentrico e sopra le righe (come tipico d’altronde nei film dell’autrice di origini iraniane), l’introversa appassionata di tassidermia Stacey (Kate Micucci). Invidiosa della bellezza delle sue colleghe, fissate con i trattamenti di bellezza e con il silicone, e attratta dal loro status sociale, Stacey inizia ad utilizzare una miracolosa crema per la pelle di cui però è allergica. Con un buon gusto cinematografico, L’apparenza esplora il declino mentale – già precario – della sua protagonista alla ricerca a tutti i costi di una validazione sociale dipendente dal suo aspetto fisico, non osando però fino in fondo in termini di shock percettivo (come accadeva invece nel precedente L’autopsia). Pur con delle buone intuizioni, in particolare nella messa in scena del modellarsi “alieno” della crema, tutto il resto rimane forse troppo in superficie, e l’episodio in ultima analisi spicca più che altro come un ottimo studio del personaggio più che come seria critica sociale.

I due successivi episodi di Cabinet of Curiosities, tratti dai racconti di H.P. Lovecraft, sono purtroppo i meno ispirati dell’intera serie. Il modello di Pickman si focalizza sull’attrazione artistica verso il tetro, il morboso e il disgustoso, senza mai esplorarla però realmente. L’ossessione dell’artista Richard Pickman (Crispin Glover) per il “brutto”, per ciò che sconvolge e che nessuno vuole apertamente visionare è relegata ai margini dell’episodio quando dovrebbe esserne invece il fulcro fondamentale. Il modello di Pickman si concentra eccessivamente sui dubbi e sui tormenti dell’artista Will Thurber (Ben Barnes), non catturando pienamente le atmosfere del racconto originale. Se però Il modello di Pickman è ancora un episodio tutto sommato ben inquadrato e coerente con se stesso, I sogni nella casa stregata è invece tutto l’opposto. Il racconto di Lovecraft viene trasformato in un incontro bislacco tra fantasy e horror, una piena banalizzazione dell’ossessione umana per la morte che risplende solamente nell’ottima realizzazione pratica del personaggio della strega.

Fortunatamente, i due episodi conclusivi di Cabinet of Curiosities correggono il tiro e rialzano il livello generale della serie. Panos Cosmatos, il regista del folle Mandy, dirige l’altrettanto bizzarro La visita. Il magnate Lionel Lassiter (interpretato da Peter Weller) invita presso la sua dimora quattro figure di spicco della società con lo scopo di mostrare loro qualcosa che potrebbe in futuro ispirarli e cambiare la loro vita. Cosmatos affianca ad una vivida e strabordante estetica neon la necessità del dialogo e del confronto, soffermandosi nella prima parte dell’episodio sulle varie personalità invitate da Lassiter e dalla dottoressa Zahra (Sofia Boutella), in un progressivo disvelamento dei loro pensieri (“aiutato” peraltro dall’assunzione di droghe). A questa situazione già inusuale di suo, Cosmatos coltiva una forte suspense su cosa effettivamente rappresenterà l’oggetto che Lassiter desidera mostrare ai suoi invitati, penetrando nella seconda parte dell’episodio in percorsi dell’immaginario che – questa volta realmente, a differenza dei due episodi precedenti – solcano a più riprese la lezione lovecraftiana.

Infine, a differenza di quanto accade ne I sogni nella casa stregata, Il brusio di Jennifer Kent esplora con grande rispetto e sensibilità artistica – in linea con la sua proposta cinematografica – il tema del trauma della perdita. Il ritiro della coppia di ornitologi Nancy (Essie Davis) ed Edgar Bradley (Andrew Lincoln) presso una casa di campagna diventa un’occasione, smarriti tra gli spettri del passato, per ritrovare la propria via nel presente, per riconnettere l’un con l’altro e, soprattutto, con se stessi. L’indagine di Jennifer Kent è minuziosa ma delicata, estremamente fragile ma nei suoi momenti più sentiti è incredibilmente vigorosa ed umana. Una gran conclusione per una serie ambiziosa come Cabinet of Curiosities, che tra alti e bassi dimostra come sia ancora possibile proporre modelli seriali “alternativi” che possano dare voce a personalità e autori non considerati di alto profilo.

Daniele Sacchi