Black Panther: Wakanda Forever, la recensione

Black Panther: Wakanda Forever

Due anni fa, la morte prematura di Chadwick Boseman ha lasciato un vuoto significativo nell’immaginario cinematografico contemporaneo. Questo perché il cosiddetto Marvel Cinematic Universe, nonostante le evidenti criticità e i dubbi legittimi suscitati dall’intera operazione, ha segnato profondamente l’ecosistema mediale dell’ultimo decennio, e la scomparsa di una delle star di punta del progetto – nonché un buonissimo attore come testimoniato anche dalla sua ultima interpretazione in Ma Rainey’s Black Bottom – non può che risultare in un lutto vissuto, a modo suo, dalla collettività. È proprio questo il sentimento che guida Black Panther: Wakanda Forever, ultimo capitolo della quarta fase del MCU e sequel di Black Panther del 2018, un’opera che nel complesso guarda con rispetto alla scomparsa della figura di T’Challa – e, per estensione, di Boseman – proponendosi come un toccante tributo che, allo stesso tempo, cerca costantemente di individuare nuovi sentieri da tracciare.

Il punto di partenza di Black Panther: Wakanda Forever consiste proprio nella morte del suo protagonista, preferendo quindi muoversi in una direzione che rispecchia la realtà invece di ricorrere ad un recast forzato del personaggio, una scelta azzeccata che permette al regista e sceneggiatore Ryan Coogler di focalizzarsi a dovere sui tentativi di superamento del lutto da parte di chi, invece, è ancora qui. Spetta quindi alla regina madre Ramonda (una grandissima Angela Bassett) e alla sorella di T’Challa, Shuri (Letitia Wright), il compito di guidare un film privato irrimediabilmente del suo eroe, entrambe fermamente opposte alla minaccia presentata dal temibile Namor (Tenoch Huerta) e dal suo popolo.

Il risultato è un’opera insospettabilmente matura (a differenza di altri disastri recenti in casa Marvel, come l’infantile Thor: Love and Thunder o il tentativo di mercificazione della nostalgia di Spider-Man: No Way Home) che insieme al bistrattato Eternals emerge tra i pochissimi highlights di una fase 4 spenta e, a tratti, imbarazzante. Con il suo film, Ryan Coogler riesce di fatto a realizzare una buona commistione tra il tipico supereroismo marveliano, semplice e alla portata di tutti, e temi invece più complessi, non solo per quanto riguarda l’elaborazione del lutto, centrale per Ramonda, Shuri e tutto il popolo wakandiano, ma anche nella messa in scena intelligente di una vera e propria critica postcoloniale.

Se la questione era già stata toccata – con poca efficacia, va detto – nel precedente Black Panther, in Black Panther: Wakanda Forever il regista statunitense riesce a trovare una nuova chiave interpretativa del tema a partire dall’esplorazione della civiltà del regno subacqueo di Talokan, nome che richiama espressamente uno dei paradisi delle mitologie americane precolombiane. Coogler rimodula liberamente la cosmogonia azteca adattandola alle esigenze di una narrazione che guarda al passato per cercare di commentare il contemporaneo, con il racconto di vita di Kukulkán, il dio serpente piumato, che assurge a metafora di un dramma esistenziale che dal singolo si estende alla collettività, dando forma concreta alle istanze rabbiose di tutti quei popoli a cui la Storia ha, per un motivo o per un altro, fatto torto.

Così, il feroce popolo di Namor ed il chiuso ed isolazionista Wakanda non appaiono tanto diversi alla loro base, se non nella differente disposizione e attitudine politico-militare nei confronti del resto del mondo. Pur rientrando sempre in un gioco manicheo che fatica a trovare delle effettive zone di grigio, riducendo eccessivamente ogni cosa all’eterno scontro tra il bene e il male, Black Panther: Wakanda Forever riesce perlomeno a dimostrare di saper andare oltre ai suoi limiti più evidenti, navigando attraverso questioni spinose e dalle implicazioni attuali.

Qualche stortura purtroppo rimane, specialmente nella CGI a tratti pacchiana e in alcune lungaggini eccessive dovute alla necessità di dover restare ancorati al corpus del MCU, come nel caso della forzata introduzione della scienziata prodigio Ironheart (Dominique Thorne) alla quale presto verrà dedicata una serie o come nel caso degli inutili siparietti tra l’agente della CIA Everett Ross (Martin Freeman) e la Contessa Valentina Allegra de la Fontaine (Julia Louis-Dreyfus). Un plauso lo merita invece la colonna sonora di Ludwig Göransson (vincitore del premio Oscar per il primo film), perfetta nell’accompagnare di volta in volta lo spettatore dal regno tecno-tribale del Wakanda alle strade della metropoli bostoniana, dalla Haiti floreale di Nakia (Lupita Nyong’o) sino alle profonde acque di Talokan, in un emozionante viaggio alla ricerca di una nuova guida per poter continuare a combattere in difesa del proprio posto nel mondo.

Daniele Sacchi