“Ema” di Pablo Larraín – Recensione

Ema

Presentato durante la 76esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Ema (2019) è un film singolare nell’economia complessiva della filmografia di Pablo Larraín. Dopo aver dedicato gran parte della sua carriera ad esplorare contesti sociali peculiari, il più delle volte anche politicamente pregni, il regista cileno sceglie con Ema una direzione parzialmente diversa, tesa perlopiù verso la rappresentazione di un insieme di tensioni psicologiche travolgenti e, a modo loro, conturbanti.

La forza trainante dell’ultimo lavoro di Pablo Larraín è proprio Ema, la ragazza che dà il titolo al film, interpretata da una sorprendente Mariana di Girolamo. Ema è una giovane ballerina di Valparaíso, da poco separatasi dal marito Gastón (Gael García Bernal). Tra i motivi del divorzio vi è un evento drammatico legato al figlio adottivo Polo, riportato in orfanotrofio dopo un grave episodio di piromania. Tuttavia, Ema viene a conoscenza della possibile riadozione del bambino da parte di una nuova famiglia, un fatto che la condurrà a nuove discussioni e riflessioni con Gastón, atti di ribellione emancipatoria e tentativi di affermare la propria libertà non solo creativa, ma anche esistenziale.

Se da un lato la tematica sociale è comunque centrale nello sviluppo del film, il punto fondamentale di Ema risiede altrove. Ema, secondo lo stesso Larraín, è un labirinto ipnotico che lo spettatore può sì percorrere, ma che non è in grado di comprendere realmente fino in fondo, perlomeno sino ai suoi minuti conclusivi (cfr.). L’opera del regista cileno vuole condurci all’interno del mondo soggettivo di Ema, permettendoci di osservarlo attraverso i suoi occhi, di venire a conoscenza del suo assetto valoriale, di entrare a contatto con le sue credenze e, soprattutto, con la sua arte: la necessità dell’espressione del corpo, la street dance, il reggaeton.

Ema

La corporeità di Ema è uno degli aspetti chiave del film del regista cileno. Larraín ribalta le dinamiche rappresentative che veicolano il male gaze attuando un vero e proprio slittamento prospettico: Ema resiste alla sottomissione dello sguardo maschile, piegandolo a suo piacimento. Il ballo, così come il sesso, sono gli strumenti coercitivi che Ema utilizza nei confronti dello spettatore. Il film di Larraín è un manifesto della femminilità, ma è una femminilità che non sottostà alle pulsioni scopofile e voyeuristiche dell’uomo, preferendo muoversi invece sui binari dell’emancipazione e dell’indipendenza, rinunciando ad ormai arcaici diktat della morale.

Di pari passo si muove anche uno dei sottotesti principali presenti nella pellicola di Pablo Larraín, riguardante sempre l’aspetto musicale affrontato però in ottica di metafora generazionale. Ema, di diversi anni più giovane rispetto a Gastón, si autodetermina nei confronti dell’alterità a partire proprio dai suoi gusti musicali. L’appeal per il reggaeton, ad esempio, è figlio delle passioni delle nuove generazioni e ben lontano dall’universo di Gastón e da quello dello stesso regista. La questione in ogni caso non si limita solamente al gusto, ma trascina con sé un retroterra culturale che, tra le altre cose, funge da ente separatore tra la ragazza e l’ex marito. Il reggaeton, infatti, si inserisce a capofitto all’interno del discorso emancipatorio. Spesso tacciato di essere un “ballo misogino” in virtù della grande centralità del corpo femminile, per Ema diventa in realtà una fonte di espressione massima: nessuno può imporre ad una donna come può ballare o meno, chiunque può utilizzare la corporeità senza vincoli per affermare la propria libertà.

Lo scontro tra passato e presente è totale. Il lavoro di Gastón in qualità di ballerino moderno non riflette ciò che accade nella realtà: ormai si danza in strada e non più su un palco, «perché è sulla strada dove le cose accadono», e saranno le stesse strade a bruciare – metaforicamente ma anche letteralmente – perché le nuove generazioni vogliono lasciare una traccia sensibile ed evidente del loro passaggio (cfr.). Ema è un film straordinario, capace di passare dall’analisi sociale al mondo soggettivo della sua protagonista da un momento all’altro e senza soluzione di continuità, muovendosi dall’introspezione di alcuni passaggi sino ad arrivare a splendide sequenze simil-videoclip, rendendo l’esperienza cinematografica complessiva dell’opera di Larraín un unicum originale ed esemplare.

Daniele Sacchi