“India Song” di Marguerite Duras – Recensione

India Song

India Song (1975) è un’opera sperimentale diretta da Marguerite Duras, basata su una pièce teatrale scritta dalla stessa regista francese (tuttavia mai prodotta) che a sua volta riprende a grandi linee alcuni temi già trattati nel romanzo Il viceconsole (1966). Il film, ambientato nell’India britannica degli anni ’30 e le cui suggestioni verranno poi riprese l’anno successivo in Son nom de Venise dans Calcutta désert, possiede una propria peculiarità fondamentale che ne determina pesantemente lo stile e la morfologia narrativa. Tra la componente visuale e l’aspetto sonoro sussiste infatti una forma di desincronizzazione strutturale tesa a tracciare un percorso audiovisivo imprevisto e destabilizzante, ma allo stesso tempo profondamente coerente con se stesso.

Nel dettaglio, lo sviluppo della trama di India Song non si muove di pari passo con le immagini. Nel corso del film, diverse voci fuori campo raccontano allo spettatore alcuni eventi riguardanti la vita di Anne-Marie Stretter (Delphine Seyrig), moglie dell’ambasciatore britannico in India e dedita ad una certa promiscuità sessuale. In particolare, il fulcro della narrazione è l’attrazione provata dal viceconsole di Lahore (Michael Lonsdale) verso la donna, la quale però non sembra interessata a cedere alle sue avances. Il film di Marguerite Duras non mette però “realmente” in scena ciò che viene raccontato. I personaggi non parlano, ma si limitano a riflettere, camminare, danzare, preferendo addentrarsi nel simbolico, nel solamente accennato, intimando lo spettatore a integrare con il suo sguardo quanto sta osservando sullo schermo.

India Song

India Song è dunque un film che lavora sull’alterazione percettiva, ma con un tono profondamente calmo e pacato, producendo pertanto un’esperienza estetizzante e raffinata radicalmente differente rispetto a quella proposta in altre opere sperimentali da altri autori (pensiamo ad esempio all’assalto ai sensi di Meshes of the Afternoon di Maya Deren). Non stupisce d’altronde il successo della pellicola, in quanto persino all’interno della stessa filmografia di Marguerite Duras India Song appare come una delle opere più accessibili, rispetto ad esempio all’astratta rappresentazione della solitudine raccontata in Le Navire Night (1979). È un ritratto seducente, ricco di fascino e in un certo senso di una componente glamour e voyeuristica che si propone come una vera e propria esperienza esistenziale, mentale e corporea. Le voci fuori campo, inoltre, contribuiscono a creare una sorta di binomio presenza/assenza singolare. I personaggi appaiono su schermo ma non sono realmente presenti: privi della loro voce, non possono far altro che esprimersi attraverso atti corporei che ne qualificano, forse, le intenzioni.

Parallelamente, India Song si presenta anche come uno sguardo critico sulla Francia e, più in generale, sul colonialismo europeo. Il film, girato proprio nei pressi di Parigi e non a Calcutta, dove invece è ambientato, riprende il contesto dell’India britannica per riflettere cinicamente sui sogni espansionistici di un intero continente. A tal proposito, la storia personale di Anne-Marie Stretter – se pensiamo anche al suo fato – può essere riletta come un tentativo di personificare l’Europa coloniale, in netto contrasto, invece, con il lavoro svolto da Duras con la figura della mendicante, l’unico personaggio del film la cui vita non sembra carica di drammaticità, nonostante la sua condizione precaria. Al di là di ogni polemica politica e sociale, comunque, ciò che spicca maggiormente in India Song è la naturalezza con la quale, con un peculiare stratagemma tecnico, la settima arte possa inserirsi facilmente in nuovi territori espressivi, senza restare ancorata per forza al dogma della linearità e della chiarezza espositiva.

Daniele Sacchi