La donna che canta, la recensione del film di Denis Villeneuve

La donna che canta

Prima di Dune, di Blade Runner 2049, di Arrival, di Sicario, Denis Villeneuve era conosciuto per essere il fautore di un cinema molto diverso, un cinema fatto di drammi contenuti ma incredibilmente potenti, come il tumultuoso Maelström o il tragico Polytechnique. La donna che canta (Incendies è il titolo originale) si inserisce in questo primo filone del regista canadese come l’opera più incisiva e tagliente, un’epopea familiare che, a posteriori, riecheggia tutt’oggi come uno degli episodi più riusciti della sua filmografia. Il film, ispirato ad una pièce teatrale di Wajdi Mouawad e ambientato in un Medio Oriente devastato dalla guerra civile, è incentrato sul racconto di una madre, Nawal Marwan (Lubna Azabal), le cui ultime volontà finiranno per gravare sensibilmente sulla vita dei suoi figli.

Tra cinema d’autore e di denuncia sociale, La donna che canta sorprende individuando tra le pieghe del suo intreccio un fenomenale punto d’incontro con le istanze tipiche del cinema di genere, in particolar modo del thriller e del giallo classico. I figli di Nawal, i gemelli Jeanne (Mélissa Désormeaux-Poulin) e Simon (Maxim Gaudette), si troveranno infatti a ripercorrere il passato della madre nella (fittizia) città di Daresh alla ricerca del padre e del fratello, nel tentativo di fare luce su un gargantuesco mistero familiare che, piano piano, non potrà che penetrare inesorabilmente nelle soglie del perturbante.

Un tatuaggio su un piede, un bus incendiato, una prigione disumana, un sospiro rivelatorio. La donna che canta vive di immagini, di graffi, di urti. Senza alcuna parola, la pungente sequenza iniziale – accompagnata solamente dalla voce di Thom Yorke e dalle note eteree di You and Whose Army? dei Radiohead – trascina immediatamente lo spettatore nell’orizzonte orrorifico della guerra, mentre alcuni bambini vengono rasati e preparati al conflitto. Gli occhi di un bambino, però, si rivolgono direttamente verso la macchina da presa: la sua rabbia è palpabile, la sua innocenza è ormai perduta e il suo sguardo supera i limiti dello schermo per protendersi direttamente nel nostro Reale.

Nel corso del film, Villeneuve mescola passato e presente senza soluzione di continuità, prediligendo la non linearità alla consequenzialità per preparare al meglio gli snodi di trama maggiormente provocatori e d’impatto, orchestrando incastri narrativi elaborati e, parallelamente, agendo con una cura maniacale sull’immagine cinematografica, con lo scopo di sfruttare al meglio tutte le potenzialità visuali offerte dal medium (il merito è anche del direttore della fotografia André Turpin, conosciuto soprattutto per il suo lavoro nel cinema di Xavier Dolan). La donna che canta, infatti, è un’opera che riesce a colpire su più fronti, sia nella sua feroce denuncia della guerra e, in particolar modo, nell’esame delle sue conseguenze (un film recente che si muove in una direzione simile è il meraviglioso quanto brutale Quo vadis, Aida? di Jasmila Žbanić) sia nell’irruenza irrefrenabile delle sue immagini.

Villeneuve tratteggia un feroce scenario di guerra dove le coordinate che definiscono l’umanità stessa cessano di aver senso, un contesto dove tutto salta, una realtà paradossale e ossimorica dove «uno più uno fa uno», un percorso di ricerca della verità che per i gemelli Jeanne e Simon può condurre solamente alla perdita di ogni loro certezza. Grazie ad una commistione perfetta di tutti i suoi elementi, La donna che canta rientra di fatto in quella categoria di opere cinematografiche che riescono facilmente a “rimanere” con lo spettatore dopo la visione, proponendosi come un viaggio emotivo intenso in grado di stimolare allo stesso tempo una riflessione profonda sulla realtà e sui suoi percorsi più ignobili e incerti, non solo nella violenza connaturata in ogni conflitto bellico ma anche sui suoi “prodotti”, effetti e contraccolpi.

Daniele Sacchi