“La terra dei figli” di Claudio Cupellini – Recensione

La terra dei figli

Se fare il genitore è un lavoro difficile, farlo dopo che il mondo è collassato lo è ancora di più. Il topos della genitorialità nell’era post apocalittica – rappresentata soprattutto nel rapporto padre-figlio – è un argomento ricorrente nelle narrazioni contemporanee. Temi come il disastro ambientale e la perdita del futuro amplificano i sensi di colpa delle generazioni precedenti che, solo ora, si rendono conto di aver consegnato ai giovani un pianeta devastato, avviato verso un inarrestabile declino. La terra dei figli, l’ultimo film di Claudio Cupellini ispirato all’omonimo fumetto di Gipi, si inserisce nel solco di quella che ormai possiamo definire una trama classica dell’apocalisse dei genitori.

In un futuro non meglio definito – a seguito di un incidente su scala mondiale che ne ha decimato la popolazione – il pianeta è diventato un luogo arido e inospitale, in cui un padre (Paolo Pierobon) e un figlio (Leon De La Vallée) devono lottare ogni giorno per sopravvivere. Quando il padre morirà, toccherà al figlio affrontare il pericoloso mondo esterno, alla ricerca di qualcuno che possa leggere il diario lasciatogli in eredità dal genitore.

La terra dei figli

Ne La terra dei figli le generazioni sembrano separate da una barriera insormontabile: da una parte abbiamo i vecchi, i padri, gli adulti, uomini fisicamente alterati e malati, che hanno assistito alla bellezza del mondo e che lo ricordano con piacere, ma che allo stesso tempo sono responsabili per ciò che hanno lasciato in eredità alle nuove generazioni. Dall’altra parte ci sono proprio i giovani, incapaci letteralmente di comprendere la lingua dei padri e di conseguenza il passato, che appare loro distante ed estraneo. La gioventù rappresenta una speranza per ciò che sarà, ma al tempo stesso non è in grado di guardare criticamente al passato. Il film di Cupellini parla soprattutto dell’incomunicabilità dei sentimenti tra due diverse generazioni.

La terra dei figli porta con sé anche un’interessante riflessione sulla totale dipendenza dell’uomo dai supporti tecnici. L’analfabetismo del figlio gli impedisce di accedere a quella memoria terziaria rappresentata dal diario del padre. Senza di essa egli è alla stregua di un animale che sopravvive giorno per giorno affidandosi al suo istinto. Incapace di comprendere il passato, di conoscere il mondo esterno o di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. Se è vero che una speranza per il futuro, per quanto flebile, ancora esiste, è altrettanto importante che le future generazioni guardino al passato per imparare, se non altro, come evitare di commettere gli stessi errori.

Gianluca Tana