“L’ascesa” di Larisa Shepitko – Recensione

L'ascesa

L’ascesa (1977) è l’ultima esperienza cinematografica di Larisa Shepitko, realizzata pochi anni prima dell’improvvisa morte causata da un terribile incidente stradale. Escludendo l’uscita postuma de L’addio (1983), opera che Shepitko stava girando nel periodo antecedente alla sua scomparsa e che venne poi terminata dal marito Ėlem Klimov, L’ascesa risulta essere il testamento finale che rappresenta appieno l’idea di cinema della regista sovietica: il cinema inteso come prodotto artistico, il cui fine ultimo non risiede da nessun’altra parte se non nella ricerca dell’immortalità spirituale.

La scelta di adattare Sotnikov (1970), romanzo del prolifico autore di racconti di guerra Vasil Bykaŭ, deriva dalla precisa volontà di Shepitko di ricercare attraverso il medium cinematografico una catarsi individuale che la regista percepiva come necessaria dopo la burrascosa e stressante produzione del precedente Tu e io (1971), tormentata dalla censura del regime sovietico. L’ascesa appare così come il massimo punto di arrivo della poetica di Larisa Shepitko, un interessante tentativo di traslare la storia del soldato Sotnikov (interpretato da Boris Plotnikov) nel proprio percorso introspettivo di recupero spirituale, in un’analogia visiva imprevedibile e dall’impatto sensazionale.

Il film, che vede la regista sovietica tornare al bianco e nero e al tema della Seconda guerra mondiale (già affrontato nel 1966 in Le ali), segue nello specifico le gesta di due partigiani sovietici stanziati in Bielorussia, Sotnikov e Rybak (Vladimir Gostyukhin). I due uomini sono in cerca di cibo per la loro squadra di soldati, bloccata nella neve e braccata dai nazisti, quando vengono catturati. Sotnikov è ferito ad una gamba e, insieme al compagno, si troverà a dover resistere all’interrogatorio di Portnov (Anatolij Solonicyn), un collaborazionista filonazista a capo della Polizia Ausiliaria Bielorussa, con l’obiettivo di non tradire i suoi compagni.

L'ascesa

L’ascesa è prima di tutto un’opera capace di mutare sensibilmente il proprio registro, tra il primo e il secondo atto, senza perdere di coerenza narrativa. Il film, infatti, segue fedelmente la fonte originale di Bykaŭ nello sviluppo degli eventi ma accentua il sottotesto biblico grazie alle scelte stilistiche coraggiose di Shepitko. Come diventa presto evidente, dal momento in cui Sotnikov viene ferito ed in seguito catturato insieme a Rybak, L’ascesa passa da essere un classico film di sopravvivenza ad una vera e propria messa in scena dell’esperienza cristologica, riletta sullo sfondo del secondo conflitto mondiale. Non è un caso infatti che per il casting del ruolo del protagonista, Larisa Shepitko abbia cercato una persona somigliante al canone iconografico corrispondente alla figura di Gesù Cristo. La sofferenza di Sotnikov, sia fisica sia mentale, si mostra allo sguardo spettatoriale come una metafora esplicita sul martirio e su ciò che ne consegue, metafora esposta visivamente dalla regista sovietica attraverso i folgoranti primi piani sul protagonista, che ricordano ampiamente il cinema di Carl Theodor Dreyer.

Ed è così che Shepitko inserisce un ulteriore tema nella sua pellicola per esplorare queste suggestioni e idee: il rapporto tra Sotnikov e Rybak. L’interrogatorio di Portnov ci mostra in tal senso due volti differenti della guerra. Uno, incarnato peraltro dallo stesso collaborazionista, vede nell’uomo il desiderio di sopravvivere ad ogni costo, al di là di ogni etica. L’altro, fondato sull’integrità morale, sulla lealtà e sull’onore, testa i limiti dell’uomo nella fedeltà verso i propri principi. Sotnikov e Rybak sono intrinsecamente tesi tra questi due poli, ma la via che Larisa Shepitko sembra ritenere migliore per l’essere umano diventa presto evidente nella risoluzione conclusiva de L’ascesa, e in particolare nella rappresentazione della morte (e, in un caso specifico, nel suo mancato avvenire).

Senza rivelare nulla sullo svolgimento narrativo del film, ne L’ascesa si dà come estremamente rilevante il modo in cui la morte sopraggiunge, o, ancora meglio, il modo in cui i personaggi vi si recano incontro. Ritornando al desiderio iniziale di Shepitko che ha condotto alla genesi della pellicola, la morte appare nella pellicola come una manifestazione sensibile della necessità imperante per l’uomo di una purificazione spirituale, e non tanto nel suo effettivo darsi – la morte, d’altronde, è la cessazione di ogni cosa – quanto nella differente predisposizione con la quale la si può affrontare. «Ho visto la morte molto da vicino», ha dichiarato la regista, parlando del periodo precedente alla realizzazione del film contrassegnato dai disagi già citati e da un parto difficile (cfr.). Ed è in questo contesto che ha compreso come senza compassione, empatia e pietà verso l’altro, l’unica cosa che rimane per l’uomo è la consapevolezza della propria vacuità, consapevolezza che, come viene magistralmente rappresentato nelle sequenze conclusive de L’ascesa, non può garantire alcuna salvezza per lo spirito.

Daniele Sacchi