“Lolita” di Stanley Kubrick – Recensione

Lolita

«È lei Quilty?»

«No, io sono Spartaco. È venuto a liberare gli schiavi?»

Stanley Kubrick apre così il suo adattamento del 1962 del celebre romanzo di Vladimir Nabokov, Lolita, con un breve e scherzoso richiamo al precedente Spartacus (1960), film che non lo aveva soddisfatto pienamente a causa dei numerosi veti imposti dalla produzione e che risulta essere di fatto un episodio marginale nell’esame complessivo della filmografia del regista, per quanto rappresenti un ottimo punto di arrivo per la prima fase della sua carriera e sebbene vi si potessero individuare alcune intuizioni che in futuro sarebbero diventate parte integrante della sua poetica e visione estetica. Nel caso di Lolita, Kubrick si trova ad avere una maggior libertà creativa – sia per quanto riguarda la narrazione sia per quanto riguarda i tratti più puramente stilistici dell’opera – ma deve comunque fare i conti con un nuovo problema: la censura, allora regolamentata dal Codice Hays.

È proprio nel cercare di aggirare le numerose regole del Production Code che può essere ravvisata una delle particolarità specifiche e maggiormente peculiari del lavoro effettuato da Kubrick in Lolita. La sceneggiatura, realizzata inizialmente dallo stesso Nabokov, è stata in seguito ampiamente rimaneggiata dal regista – insieme al produttore James B. Harris, con il quale aveva già collaborato in Rapina a mano armata (1956) e in Orizzonti di gloria (1957) – nel tentativo di adeguare il draft iniziale dell’autore sovietico al Codice Hays, senza tuttavia perdere di vista l’alone conturbante e erotico che la permea.

In particolare, Stanley Kubrick ricorre a più riprese al non detto, al celato, all’impenetrabile per esplorare l’attrazione perversa di un professore divorziato, Humbert (James Mason), verso la giovane adolescente Dolores (Lolita, interpretata da Sue Lyon), come nel caso della primissima inquadratura del film, la quale ci mostra l’uomo mentre mette lo smalto al piede della ragazza. Così come questo incipit appare allo sguardo spettatoriale senza alcuna spiegazione né contesto, anche la sequenza successiva rompe attivamente la consequenzialità temporale degli eventi attraverso la messa in scena dell’omicidio perpetrato da Humbert verso l’enigmatico personaggio di Clare Quilty (Peter Sellers).

Lolita

In tal senso, Kubrick agisce operativamente sulla struttura narrativa di Lolita per spezzarne il realismo sin dal suo primo atto, creando dei sottotesti incerti che permangono sullo sfondo del film lungo tutta la sua durata. In tutto ciò, Lolita unisce la macabra attrazione di Humbert nei confronti di Lolita con un sottile umorismo di fondo, riscontrabile soprattutto nello sviluppo del rapporto tra l’uomo e la madre della ragazza Charlotte (Shelley Winters) –  in una cornice via via più grottesca e dominata dalla sopraffazione – oltre che nelle sequenze dedicate all’eclettico Quilty, elemento di disturbo e vero grande mistero della pellicola.

Per evitare infatti di perdere progressivamente l’attenzione dello spettatore con l’avvicinarsi della risoluzione dell’elemento narrativo centrale di Lolita, Kubrick dilata il ruolo di Quilty rispetto al romanzo in modo da assegnare al film una veste quasi magica e surreale ad ogni apparizione dell’uomo, sempre in contrasto con l’apparente natura realistica dell’intreccio. La grande assente, se così vogliamo definirla, all’interno della cornice presentata da Kubrick sembra essere proprio Lolita. La ragazza viene sempre esposta come mero oggetto del desiderio e non è mai mostrata veramente nell’atto di esprimere i suoi sentimenti e le sue intenzioni reali, in quella che si dà come una rappresentazione passiva e inerme del personaggio che focalizza perfettamente il suo ruolo nella storia. Lolita, in qualità di desiderio proibito e inaccessibile in virtù della sua giovane età, non appare mai in contesti che non comprendono l’asserzione della sua presenza come oggetto, annullando il suo essere soggetto.

Lolita non può dunque darsi se none come preda e vittima di un processo completo di depersonificazione che si pone al di là delle sue possibilità di assimilazione e controllo, processo soggetto alle dinamiche di un male gaze che non sa più come frenare le proprie pulsioni scopiche e libidinali. I metodi e le azioni di Humbert e Quilty sono guidati da precise logiche predatorie intrinseche ad un certo modo tossico e perverso di intendere l’alterità che cerca di celare, dietro ad un’apparenza bonaria e affabile, una profonda ipertrofia dell’ego. In Lolita, Kubrick esplora e setaccia alcune delle dinamiche più oscure del desiderio umano, lasciando in ogni caso degli spiragli e delle aperture nei confronti del suo protagonista e riuscendo, grazie anche al sopracitato lavoro di ridefinizione strutturale e di decostruzione del materiale originario, a far mantenere all’opera una libertà interpretativa di fondo che le consente di poter essere visionata ed interpretata attraverso numerosi e sfaccettati punti di vista.

Daniele Sacchi