“Lo specchio” di Andrej Tarkovskij – Recensione

Lo specchio

Lo specchio (1975) è probabilmente il film di Andrej Tarkovskij più complesso da visionare, assimilare ed apprezzare. Nel suo Scolpire il tempo, il regista sovietico riporta a tal proposito alcune delle lettere ricevute al suo tempo da alcuni spettatori indignati dopo aver assistito alla proiezione della sua opera, come quella di un ingegnere di Leningrado: «ho visto il Suo film Lo specchio, l’ho visto fino alla fine, sebbene già dopo mezz’ora mi abbia preso un forte mal di testa a causa dei miei onesti sforzi di penetrare in esso e di comprenderne almeno qualche cosa, di collegare in qualche modo tra loro i personaggi, gli avvenimenti e i ricordi. Noi, poveri spettatori, vediamo film belli, brutti, molto brutti, usuali oppure molto originali. Ma ognuno di essi lo possiamo comprendere, possiamo entusiasmarcene, oppure rifiutarlo, ma questo?!».

L’errore spettatoriale è stato pensare che ne Lo specchio ci fosse effettivamente qualcosa da svelare, da spiegare, da sottoporre al gioco interpretativo. Tarkovskij in realtà si allontana sensibilmente dall’idea di linearità dell’intreccio per abbracciare invece la frammentazione propria dello stream of consciousness. In tal senso, il film del cineasta sovietico presenta un insieme di situazioni non legate tra di loro in termini di temporalità, se non nella temporalità specifica delle singole sequenze che lo compongono.

Tarkovskij racconta così la sua infanzia in un flusso di immagini e di ricordi che tuttavia trascendono l’intento autobiografico, fortemente presente ma non determinante, mescolando a più riprese la finzione e la realtà. Le poesie del padre (il grande poeta sovietico Arsenij Tarkovskij), recitate in diverse occasioni, sottolineano allo stesso tempo il carattere poetico de Lo specchio definendolo ulteriormente non come una mera successione di eventi da comprendere e da interpretare, bensì come un’opera da abbracciare attraverso l’espressività della sua rappresentazione.

Lo specchio

In ogni caso, Tarkovskij non pone lo spettatore di fronte ad una pura cascata di immagini completamente indipendenti tra loro, rifuggendo da uno sperimentalismo vano che peraltro riteneva non pertinente all’attività artistica, ma cerca di tenerle ancorate l’un l’altra attraverso la figura di Aleksej. Lo specchio infatti non è nient’altro che l’insieme dei ricordi di Aleksej, così come appaiono alla sua mente in preda, probabilmente, ad una grave malattia. La confusione atemporale con il quale le immagini del film si presentano agli occhi dello spettatore mima lo stato mentale di Aleksej, che ci appare peraltro interpretato da tre attori diversi. Tra questi, Ignat Daniltsev non solo interpreta quest’ultimo da giovane, ma recita anche nei panni di suo figlio. Tarkovskij decide pertanto di assegnare ai suoi attori diversi ruoli, amplificando non solo la parcellizzazione formale del film ma anche alcune connessioni implicite tra i diversi personaggi, come nel caso di Margarita Térechova che si trova ad interpretare sia la madre sia la moglie di Aleksej.

L’enfasi posta al continuo scambio di ruoli non è una semplice scelta diegetica ma un ulteriore tentativo da parte di Andrej Tarkovskij di focalizzare lo sguardo spettatoriale sulla connessione stessa piuttosto che sul suo risultato o sul significato dell’associazione. Una sequenza che opera con mezzi diversi ma ambendo allo stesso scopo, ad esempio, è l’incontro tra la madre di Aleksej e un dottore interpretato da Anatolij Solonicyn, un evento apparentemente insignificante ma che in realtà mostra con chiarezza l’idea di cinema tarkovskijana. Dopo aver discusso per qualche minuto, il dottore si allontana dalla donna, ma prima di andarsene si volta per osservarla un’ultima volta: un’impetuosa folata di vento li raggiunge, cristallizzando nel tempo il loro breve incontro, sigillandolo nell’immagine cinematografica.

In questo senso, ed in linea con i lavori precedenti del regista sovietico come Andrej Rublëv (1966) e Solaris (1972), Lo specchio passa da una sequenza all’altra seguendo un’impronta spiccatamente naturalista. Tutto viene presentato come se fosse reale, indipendentemente dalla mancanza di referenzialità: così, Tarkovskij passa dal bianco e nero ai colori, dal materiale girato per il film al materiale documentaristico, dal sogno al ricordo, dal passato al presente, senza soluzione di continuità. Per il regista sovietico, l’immagine cinematografica in quanto artistica non deve essere funzionale: nella sua autonomia, infatti, esprime la verità assoluta.

Daniele Sacchi