“Shin Godzilla” di Hideaki Anno e Shinji Higuchi – Recensione

Shin Godzilla

12 anni dopo l’ultima produzione Toho dedicata a Godzilla, l’iconico kaiju giapponese torna sul grande schermo nel 2016 con Shin Godzilla, diretto da Hideaki Anno (l’autore di Neon Genesis Evangelion) e da Shinji Higuchi. Escludendo le produzioni americane, come il recente lavoro di Gareth Edwards nel 2014, Shin Godzilla è la 29esima iterazione del franchise e il terzo reboot. A partire da queste premesse, dunque, sembra doveroso chiedersi cosa ci sia effettivamente da dire su quello che sembrerebbe un continuo riciclo di idee per meri scopi intrattenitivi.

In realtà, Shin Godzilla cerca di porsi al di là della semplice riproposizione del già noto, allontanandosi dal tono kitsch e da b-movie tipico della maggior parte delle pellicole dedicate al mostro giapponese e compiendo un vero e proprio ritorno alle origini, caricandolo tuttavia di nuovi significati. Da questo punto di vista, infatti, il film di Anno e Higuchi, prima ancora di presentarsi come un reboot complessivo, sembra essere quasi un remake del primo Godzilla (1954) di Ishirō Honda. La pellicola di Honda rappresentava di fatto l’insieme di tensioni successive ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. Il mostro, creato dalle radiazioni, era il simbolo della follia autodistruttiva dell’uomo, un colosso presentatosi come vera e propria manifestazione del degrado umano.

Shin Godzilla riprende alcune delle idee dell’opera di Honda adattandole tuttavia ad un contesto moderno. Abbandonando tutto l’insieme di creature che nel corso della storia del franchise si sono di volta in volta trovate di fronte all’enorme mostro, l’opera di Anno e Higuchi torna a soffermarsi nuovamente sul solo Godzilla, ponendolo come figura centrale sin dal suo incipit. All’inizio del film infatti, la guardia costiera giapponese sta indagando su uno yacht abbandonato nella baia di Tokyo quando viene attaccata dal mostro, che presto arriverà in città e inizierà a distruggerla palazzo dopo palazzo.

Shin Godzilla

Godzilla, realizzato per la prima volta dalla Toho in CGI e con il ricorso al motion capture, è a questo punto ancora ad uno stadio primordiale, presentandosi come una creatura estremamente terrificante alla vista grazie in particolar modo alla scelta stilistica che lo vede privo di palpebre e di membrane attorno agli occhi, sottolineando la sua provenienza marina. Solo in seguito raggiunge la forma con la quale si è imposto nell’immaginario collettivo, non prima di aver messo a soqquadro l’intera città. Il suo arrivo viene accolto come ogni evento tragico su scala mondiale viene assorbito dalla popolazione al giorno d’oggi: attraverso la condivisione virale di immagini e di materiale video. Hideaki Anno e Shinji Higuchi si soffermano più volte nella prima parte del film sull’influenza dei nuovi media, proponendo spesso delle sequenze in soggettiva, il più delle volte riprese realizzate dalla gente comune in fuga dal mostro, alternate ad una narrazione tradizionale ed oggettiva. Il film è perlopiù girato seguendo uno stile classico, ma è interessante notare in ogni caso l’interesse mostrato dai due registi alle retoriche contemporanee di diffusione intermediale.

La scelta predominante del film di seguire un’impostazione classica nella messa in scena dell’intreccio è legata soprattutto al fatto di voler fornire allo spettatore uno sguardo predominante sulla ricezione politica dell’evento. In questo senso, Shin Godzilla più che un film d’intrattenimento è una vera e propria riflessione critica, estremizzata e profondamente satirica, sulla necessità di snellire l’apparato burocratico giapponese. Uno dei politici chiamati a rispondere alla gravità dell’arrivo di Godzilla evidenzia l’impossibilità di deviare dai protocolli per contrastare il pericolo: «non si può fare nulla senza seguire le procedure». La sottomissione dei giapponesi all’intervento americano amplifica ulteriormente questo concetto: l’eccessivo rigore e il rispetto delle regole sembrano prioritari persino di fronte all’annichilimento.

Shin Godzilla, come risposta non più ad Hiroshima e a Nagasaki bensì al disastro di Fukushima e alla gestione del terremoto di Tōhoku, è un forte richiamo alla possibilità di un collasso strutturale del Giappone. Il grande successo in patria, che al di là dei risultati al box office si è reso evidente anche con l’incetta di premi ai Japan Academy Prize, è sintomo di un Paese che è conscio dei propri problemi e che apprezza il tentativo di riflettere su di essi anche attraverso un canale particolare come può essere il ricorso alla forma del mostruoso e dell’insolito.

Daniele Sacchi