“The Raid – Redenzione” di Gareth Evans – Recensione

The Raid

Giacarta. L’ufficiale Rama (Iko Uwais) prega per la buona riuscita della sua missione: un breve momento di riflessione prima di tuffarsi nel pieno dell’azione, senza più guardarsi indietro. “Azione” infatti è la parola chiave in The Raid – Redenzione, produzione indonesiana del 2011 affidata al regista gallese Gareth Evans, e per tutto il resto del film non ci sarà più spazio per alcuna pausa. In modo simile a quanto avviene in Mad Max: Fury Road (2015, George Miller), lo sviluppo della trama di The Raid è strettamente legato al continuo susseguirsi di sequenze dal forte impatto visivo, tanto da giungere a far coincidere pienamente la natura dell’intreccio con la dimensione dell’azione stessa.

Girato con un budget modesto di poco più di 1 milione di dollari, The Raid racconta di un’operazione militare condotta in un complesso residenziale governato da un signore della droga, Tama (Ray Sahetapy). L’obiettivo da parte delle autorità è di arrestarlo, in modo da far cessare le attività della sua gang per riportare così l’ordine nel quartiere. A fungere da vera e propria linea guida durante l’ora e quaranta circa di runtime del film è la pratica del silat, un’arte marziale originaria del sud est asiatico, che si presenta come il veicolo principale attraverso il quale l’azione viene mostrata al pubblico.

A livello strutturale, i segmenti che compongono The Raid possono essere paragonati ai livelli di un videogioco. Nel corso del film, infatti, osserviamo il gruppo di ufficiali penetrare nel complesso residenziale piano dopo piano, casa dopo casa, stanza dopo stanza, con un ritmo veloce che ha come suo scopo principale il presentare agli spettatori un senso di vera e propria progressione.

The Raid

L’avanzata sia orizzontale sia verticale del gruppo conduce i protagonisti a pericoli via via sempre più grandi, e Evans riesce pertanto nell’impresa cinematografica di infondere nello spettatore una continua hype nell’attesa del raggiungimento, per continuare l’analogia con i videogiochi, del boss finale della pellicola. Dunque, The Raid si dimostra un film brillante nel riuscire a presentare l’azione continua non come autoreferenziale e fine a se stessa, come accade invece in molti blockbuster hollywoodiani dello stesso genere, ma come qualcosa che ha uno scopo ben preciso dinanzi a sé verso il quale tendere apertamente.

Evans si dimostra dunque un regista molto acuto nel sottolineare a dovere, con un montaggio ritmato e veloce, le scene che vedono come protagonista soprattutto Uwais, attore con il quale aveva già collaborato in un altro film di arti marziali indonesiano, Merantau (2009). In tal senso, Evans si fa fautore di un show, don’t tell che a posteriori si dimostra un’ottima scelta narrativa in virtù della grande enfasi posta sugli scontri tra gli ufficiali e i criminali, scontri le cui coreografie virtuose sono inoltre accompagnate da una graffiante colonna sonora curata da Joseph Trapanese e da Mike Shinoda, la cui ricerca sonora tesa verso il dominio della musica elettronica si rende efficace nell’amplificare la tensione già di per sé caratterizzante le varie sequenze di combattimento.

The Raid dunque, insieme al suo seguito maggiormente narrative-driven The Raid 2: Berendal (2014), si propone allo spettatore come una pura esperienza cinematografica che ricerca, attraverso la forza visiva del suo girato e attraverso le modalità con le quali lo stesso viene articolato, l’immersione totale dello spettatore: un’immersione che scaturisce da ciò che Bruno Latour definirebbe come «un flusso ininterrotto» di «cascate di immagini». In poche parole, The Raid non è solo un must per gli appassionati di film d’azione, ma è anche, per la particolarità della sua tecnica e per la singolarità del suo stile, un’opera imperdibile per ogni amante della settima arte.

Daniele Sacchi