“Sto pensando di finirla qui” di Charlie Kaufman – Recensione

Sto pensando di finirla qui

Sto pensando di finirla qui (2020, I’m thinking of ending things il titolo originale) è il nuovo film di Charlie Kaufman, distribuito da Netflix e ispirato all’omonimo romanzo di Iain Reid. Inutile aspettarsi qualcosa di tradizionale dal cineasta statunitense, che rielabora quasi interamente il materiale originale di riferimento per proporre una propria visione contorta, cerebrale e multiforme della psiche e dei processi di determinazione identitaria dell’essere umano. Non è un’operazione nuova per Kaufman, che ci ha abituati a percorsi narrativi ed estetici simili lungo il corso della sua carriera di sceneggiatore e di regista – pensiamo ad esempio a opere come Essere John Malkovich (1999, Spike Jonze), Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004, Michel Gondry) o al suo Synecdoche, New York (2008) – e che in Sto pensando di finirla qui ripercorre da nuove angolazioni e punti di vista.

Sono due – almeno inizialmente – le figure principali attraverso le quali il film propone la sua disamina. Da un lato, una “giovane donna” (Jessie Buckley) dai molteplici nomi: Lucy, Louisa, Lucia. Dall’altro lato, il suo compagno, Jake (Jesse Plemons), intenzionato a far conoscere alla ragazza i suoi genitori. Un lungo viaggio in auto sotto una tormenta di neve porta la “giovane donna” a riflettere su un pensiero che ha già reso manifesto allo spettatore in apertura del film: «I’m thinking of ending things», sto pensando di finirla qui. La relazione, certo, ma l’espressione contiene in sé anche un preciso disagio esistenziale che diventa evidente mano a mano che i due protagonisti si trovano a dare sfogo ai propri tormenti interiori, specialmente nel momento in cui raggiungono la fattoria dove vivono i genitori di Jake.

Sto pensando di finirla qui

L’incontro con il padre e la madre di Jake, interpretati da David Thewlis e da Toni Collette, scardina completamente la temporalità di Sto pensando di finirla qui. In una lunga ed enigmatica sequenza, i genitori del ragazzo si presentano di fronte agli occhi della coppia in momenti differenti della loro vita, passati e futuri, rompendo la presunta linearità del film e spezzando ogni forma di consequenzialità e di rapporti causa-effetto. A Kaufman piace giocare con strutture narrative ad incastro, dal carattere spesso metacinematografico e che ragionano apertamente sulla natura del cinema in quanto artificio, sfidando lo spettatore a compiere l’impossibile, ossia a ricostruire ciò che non può essere ricostruito. Sto pensando di finirla qui è la messa in scena di un inganno frammentario perfettamente architettato, non riconducibile ad un intero ben definito e concepibile solamente nella comprensione della sua intrinseca vacuità, che è poi la stessa vuotezza esistenzialista alla base della crisi identitaria dei suoi protagonisti.

Così, Charlie Kaufman ci conduce attraverso una spirale discendente che, apparentemente, non contempla alcuna via di uscita. Uno spiraglio, però, potrebbe esserci e sembra risiedere solamente nell’accettazione del potere liberatorio dell’arte. Sto pensando di finirla qui attribuisce a tal proposito una parte importante nelle discussioni dei suoi protagonisti e nella sua messa in scena anche al cinema, alla pittura, alla poesia, alla musica e, soprattutto, alla danza, ma senza raggiungere mai un punto di svolta effettivo. Sebbene Kaufman nel complesso riesca a trasmettere a dovere i punti salienti della propria visione autoriale, l’incedere arzigogolato del film appare forse come eccessivamente autoreferenziale. L’opera dell’autore statunitense è sicuramente interessante, ma è purtroppo ben lontana dalla grandezza e dallo spessore del resto della sua filmografia, per quanto sia comunque brillante nel suo intento e nelle sue finalità.

Daniele Sacchi