The Beast di Bertrand Bonello, la recensione del film (Venezia 80)

The Beast

The Beast, in concorso all’80esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è il nuovo folle, surreale e visionario viaggio di Bertrand Bonello liberamente ispirato alla novella di Henry James intitolata La bestia nella giungla. Bonello in chiusura dedica il film a Gaspard Ulliel, l’attore recentemente scomparso con il quale aveva collaborato in Saint Laurent e che avrebbe dovuto interpretare uno dei due protagonisti proprio di The Beast. Lo sostituisce George MacKay (lo abbiamo visto in 1917 di Sam Mendes) nel ruolo di Louis, un giovane ragazzo innamorato di una donna francese, Gabrielle, interpretata da una folgorante Léa Seydoux.

È il 1910 e Gabrielle si occupa di una fabbrica che produce bambole. È il 2014 e Gabrielle è una modella con il sogno di diventare un’attrice. È il 2044 e Gabrielle desidera sottoporsi ad un processo che le rimuoverà per sempre le sue emozioni. Bertrand Bonello gioca con il meccanismo della coazione a ripetere, con motivi e temi ricorrenti, muovendosi da un genere ad un altro, da momenti di passione e amore a deliri e catastrofi, decostruendo continuamente la temporalità e la spazialità in un film stratificato, ostico, tagliente ed incredibilmente attuale.

Ad unire le varie epoche è la dicotomia mutevole di avvicinamento e di allontanamento che coinvolge Gabrielle e Louis. Il registro del 1910 è quello del melodramma classico, distante dalle atmosfere più cupe e postmoderne del resto dell’opera. I colori sono più naturali (grazie anche al ricorso al 35mm), l’atmosfera è più tranquilla e il focus è perlopiù sul personaggio di Louis, impegnato a corteggiare la già sposata Gabrielle. Lo sfondo è quello del grande alluvione della Senna, una delle grandi tragedie raccontate nel film che aiutano a decodificarlo. Nelle sequenze dedicate al 2014, invece, The Beast si fa più minimalista e torbido, lynchiano e onirico. Qui l’ispirazione è un fatto di cronaca realmente accaduto, nonché una messa in scena inquietante delle derive tossiche che abbracciano la subcultura incel.

Perno del film, tuttavia, è il setting futuristico e distopico rappresentato dal 2044. In un’epoca in cui le intelligenze artificiali hanno rimpiazzato quasi completamente l’umanità, ogni forma di socialità, di condivisione emotiva, di sfogo collettivo è ormai scomparsa. Ciò che è rimasto è l’individuo in una forma epurata dalla sua umanità, nonostante il processo di eliminazione delle emozioni al quale ci si può sottoporre venga definito proprio come purificatorio. Gabrielle, che a differenza della piega che ha preso l’umanità, è realmente intelligente, è in dubbio sulla validità del processo, convinta che la relazione che la lega a Louis tra le epoche sia più forte di ogni cosa.

Da Mulholland Drive a Twin Peaks – Il ritorno, da Trash Humpers (esplicitamente citato) a Holy Motors, The Beast è un’indagine provocatoria capace di riflettere – a modo suo – sul sociale, ma soprattutto sull’immagine cinematografica stessa. Quasi a richiamare le manipolazioni dell’immagine hanekiane di Benny’s Video, Funny Games e Code Inconnu, Bonello altera il rappresentato, torna indietro, va avanti, salta i frame. Le cose accadono, a volte in modo consequenziale e razionale, a volte secondo le vie dell’irrazionale, oscillando vorticosamente tra sogno e realtà.

L’oggettività delle videocamere di sorveglianza (e qui subentra anche Caché) viene controbilanciata dalle scosse e dagli urti inaspettati, dalle logiche del sogno, dai piccioni-presagio, dalle misteriosi frasi pronunciate da un’indovina, dalle bambole inespressive o al contrario troppo espressive. Vediamo attraverso gli occhi della Gabrielle del futuro, ma per poter ambire ad avere un quadro completo abbiamo bisogno della verità (lo è davvero?) fornitaci da un’immagine incerta, fredda, urticante, la stessa verità/non-verità con la quale Gabrielle dovrà fare i conti. The Beast è un labirinto, un enigma da risolvere che, come ultima sua divagazione, ci conduce dinanzi alla catastrofe più grande, l’annullamento definitivo di ciò che rendere l’essere umano tale.

Le recensioni di Venezia 80

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Daniele Sacchi