“The Night House” di David Bruckner – Recensione

The Night House

Per David Bruckner, The Night House è il proseguimento di un percorso iniziato ormai da diversi anni, a partire dalle antologie horror come V/H/S sino ad arrivare al debutto con il lungometraggio ispirato alla mitologia norrena The Ritual. In questo percorso, The Night House non è ancora un punto di arrivo, ma un passaggio necessario per Bruckner nel tentativo di individuare un proprio stile all’interno del microcosmo horror contemporaneo, situandosi in uno spazio intermedio a cavallo tra il bisogno di proporre nuovi immaginari del terrore e la volontà di rivolgere uno sguardo al passato.

Il film, sceneggiato da Ben Collins e Luke Piotrowski, sembra a tal proposito individuare come sua possibile matrice originaria le atmosfere lugubri e a tratti esoteriche del cinema di Dario Argento e Mario Bava, mescolandole con le dinamiche paranoiche ed ossessive de L’uomo invisibile, specialmente nella sua rivisitazione moderna diretta e sceneggiata da Leigh Whannell.

Protagonista di The Night House è Beth (Rebecca Hall), da poco vedova a causa del suicidio improvviso del marito Owen (Evan Jonigkeit). La donna, incapace di comprendere il gesto del marito, si trova a dover fare i conti con una presenza spiritica invisibile nella sua abitazione. Tra incubi dalle tinte sovrannaturali e inquietanti misteri da scoprire, Beth dovrà fare luce sulla misteriosa doppia vita di Owen per cercare di dare una parvenza di senso a tutto ciò che le sta accadendo.

The Night House

A giocare un ruolo fondamentale in The Night House è lo spazio domestico, luogo di proliferazione di bugie e di mezze verità. Il film lavora per incastri, contraltari speculari e ribaltamenti prospettici, ricercando l’essenza del sovrannaturale tra le pieghe del reale, là dove può nascondersi per poi dotarsi di sembianze umane. In questo tentativo di sovversione del riconosciuto, che vale sia per Beth sia per lo spettatore, non veniamo posti di fronte alle pulsioni sotterranee e alle implicazioni socio-politiche di Noi di Jordan Peele, bensì ad una deriva psicologica intrinseca e peculiarmente individuale che abbraccia la protagonista nel suo rapporto con se stessa e con l’alterità.

Trovare un senso al trauma della perdita, per Beth, si traduce così in un’operazione di riscoperta personale e, di conseguenza, in un modo per riorganizzare e osservare da un nuovo punto di vista la realtà che la circonda, partendo dalle mura domestiche e dal rapporto con il marito sino ad arrivare a rideterminare se stessa e gli eventi più intimi del suo passato.

Se da un lato il canovaccio essenziale di The Night House è parte di un immaginario riconosciuto (case isolate, infestazioni spiritiche e minacce invisibili sono ormai una parte consolidata del panorama cinematografico horror), dall’altro lato David Bruckner propone alcune sottigliezze estetiche e ambiguità strutturali che rendono il film un interessante affresco introspettivo, non lontano per intenzioni da operazioni recenti – simili nell’approccio per quanto distanti nei contenuti – come The Empty Man di David Prior o Antlers di Scott Cooper. Ciò che è intimo e familiare si trasforma in disagio metafisico e in oppressione esistenziale, con il paradigma del mostruoso che finisce per ergersi a simbolo di una deriva piscologica ininterrotta e che può essere fermata solo dalla volontà impenetrabile del singolo.

Daniele Sacchi