“Cow” di Andrea Arnold – Recensione

Cow

Approda su MUBI il documentario Cow di Andrea Arnold, già presentato nel corso dell’ultima edizione del Festival di Cannes. Si tratta della prima incursione nel genere documentaristico per l’acclamata regista britannica, una novità solamente di forma dal momento che Cow respira pienamente dell’idea di cinema di Arnold, dalla messa in scena di un preciso naturalismo dell’immagine sino all’uso predominante della camera a mano, con un forte sottotesto sociopolitico irrimediabilmente presente. Nello specifico, Andrea Arnold segue nel suo film la vita quotidiana di Luma, una mucca da latte in un allevamento. Siamo vicini e allo stesso tempo lontani da Gunda di Viktor Kossakovsky: da un lato lo spettatore vive da vicino le esperienze dell’animale, ma a differenza del documentario di Kossakovsky non vi sono sperimentalismi o estetizzazioni di sorta.

Luma, in particolare, non viene sottoposta ad alcun processo di traduzione del suo vissuto in sguardo soggettivo, in quanto sussiste sempre uno scarto tra ciò che vediamo e l’animale. Lo sguardo della macchina da presa e di conseguenza lo sguardo spettatoriale non si istituiscono come il corrispettivo di una soggettività, non vi è una sovrapposizione effettiva tra lo spettatore che guarda e l’animale stesso. Andrea Arnold immerge lo spettatore tra gli animali, ponendosi direttamente al loro fianco e restituendoci una visione ai margini che però non suscita mai una reale immedesimazione: è proprio questo rapporto di estrema vicinanza e di simultanea distanza a rendere Cow un’opera in grado di restituire una rappresentazione a modo suo totalizzante dei meccanismi soverchianti ai quali Luma viene regolarmente sottoposta.

Cow

In tal senso, le modalità attraverso le quali l’essere umano appare in scena nel film di Andrea Arnold sono a loro volta sintomatiche della volontà di esaminare le dinamiche di dominio vigenti all’interno degli allevamenti. In Cow, gli allevatori sono individui che appaiono fugacemente e quasi mai a figura intera, il focus principale è sempre direzionato sugli animali e sul loro punto di vista. Gli allevatori sono delle semplici “parti corporee” che con spaventosa meccanicità e abitudinarietà praticano delle specifiche azioni di controllo e di potere. Anche in questo caso, Arnold opera secondo una visione duale e quasi ossimorica, tra vicinanze e distanze, affiancando alle pratiche di cura degli animali, svolte secondo protocollo e senza accanimenti, una barbarie strutturale che comunque le regola.

Così, in Cow assistiamo ad un vero e proprio cortocircuito in cui l’orrore viene normalizzato e la vita quotidiana continua a scorrere con fredda tranquillità, tra vitelli che nascono e vivono grazie anche alla cura umana per poi però essere irrimediabilmente separati dalla madre, tra animali che possono pascolare liberamente ma solo dopo essere stati ammassati uno sopra l’altro per il viaggio, tra marchi, decornazioni e surrogati di latte. In questo contesto antitetico di ambivalenze e disconnessioni, una volta che smetti di “funzionare” cessi di far parte del sistema, la tua utilità svanisce e la soluzione da un punto di vista produttivo è solo una e brutale. In un film così sincero e autentico, Andrea Arnold non poteva infine omettere anche quell’asprezza costitutiva del reale, sempre evidente ma necessariamente più oggettiva, cruda e spietata una volta raggiunti i momenti conclusivi dell’opera.

Daniele Sacchi