28 anni dopo di Danny Boyle, la recensione del film

28 anni dopo

Nella sua inclinazione più lucida, l’horror è il genere che meglio di ogni altro sa intercettare le ansie collettive, plasmarle in immagini disturbanti e restituirle allo spettatore come riflessione travestita da intrattenimento. 28 anni dopo, diretto da Danny Boyle in una rinnovata collaborazione con Alex Garland alla sceneggiatura, raccoglie questa eredità e tenta di portarla a maturazione. Più che un racconto di infezione e sopravvivenza, dirige, di fatto, una storia sulla sfiducia generalizzata, sull’illusione di immunità al dolore, qualora sia altrui, o comunque relegabile all’infuori del nostro quotidiano, e sulla spietatezza dell’istinto – amorale ma umano – di preservare sé stessi.

Pur aderendo al macrogenere dell’epidemia zombie, in ovvia continuità con il precedente capitolo 28 giorni dopo (2002), il nuovo titolo si costruisce su coordinate di maggior complessità. Sottotraccia, la parabola di Spike (Alfie Williams), un ragazzino nato in una comunità inglese post-infezione, è puro pretesto per raccontare l’apatia condivisa di fronte alle tragedie circoscritte, quindi il rifiuto consapevole di ciò che si può contenere, isolare, nascondere, o dimenticare. Il Regno Unito di 28 anni dopo è diventato terra di nessuno, non in semplice virtù dell’espansione incontrollata dell’infezione, ma perché il resto del mondo ha smesso di preoccuparsene. La comunità internazionale, che si è sviluppata e ha continuato a prosperare, si è anzi attivamente organizzata onde evitare qualsiasi contatto con il contagio. I sopravvissuti locali non sono vittime, non sono poveri disgraziati, ma contingenze che, col tempo, saranno neutralizzate insieme al resto della minaccia. Un isolamento geopolitico divenuto isolamento etico.

Il primo atto, il più riuscito, è quello maggiormente abile a trasporre questo potente parallelismo con le dinamiche del presente. Boyle sfugge volutamente alle suggestioni più prevedibili dello zombie movie, riflettendo invece sul militarismo e sulla psicosi del controllo. Il montaggio serrato iniziale dialogante tra passato e futuro, ritmato anche musicalmente sulla registrazione di Boots di Rudyard Kipling, restituisce un’immagine cinetica, sinistra, e disillusa sulla sopravvivenza come assonante alla macchina bellica istituzionale. Nel passaggio al secondo e terzo atto, però, l’impalcatura appare incrinarsi. Il film si apre a suggestioni più filosofiche (sul valore della vita, sull’accettazione della morte) ma con un trattamento forse meno sottile, meno focalizzato, e le premesse iniziali traslano in elementi di cornice. Emerge, sul finale, l’unica grande debolezza del film: l’esigenza di serializzazione. Pensato come primo capitolo di una nuova saga (forse di una trilogia), 28 anni dopo si chiude come puro incipit, in una struttura che lascia una sensazione di incompletezza, quasi mutilazione.

Altro elemento a tratti dissonante – suggestivo ma non sempre ben risolto – è il leggero scarto tra le poetiche dei due autori coinvolti. La sinergia tra la regia pop-aggressiva di Boyle e la scrittura lucida e claustrofobica di Garland funziona a tratti simbioticamente, a tratti procedendo per strappi paralleli. La prima, protesa al ritmo, al bizzarro, al carnale; la seconda al cerebrale e al perturbante. Impulsi brillanti, qualora in equilibrio, ma un’alternanza che diventa scontro qualora non lo siano completamente.

In quanto sequel, 28 anni dopo si tratta di un progetto riuscito, coraggioso e più ambizioso della media dei film del suo genere, ma si tratta anche di una pellicola costantemente in bilico. Questo, tra due anime creative non sempre armoniche, tra suggestioni socio-filosofiche e necessità narrative, come tra opera d’autore e prodotto commerciale. Rimane, in ogni caso, un tentativo affascinante di elevare l’orrore a riflessione del presente, dove il vero terrore non è il contagio, ma il confine nella scelta tra a chi concedere empatia, e a chi no.

Beatrice Gangi