Abigail, la recensione del film

Abigail

Dopo aver convinto con Scream 5 e Scream 6 (un’eredità, va detto, non semplicissima da gestire), Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett ritornano con Abigail ad esplorare territori horror più vicini alla commedia, richiamando a più riprese i toni del loro – riuscitissimo – Ready or Not (Finché morte non ci separi il titolo italiano). Ad accompagnare il duo di registi statunitensi ritroviamo anche Melissa Barrera, costretta a lasciare il timone del franchise di Scream a causa dei suoi commenti sulla situazione israelo-palestinese, qui di nuovo nei panni di un’antieroina alle prese con una minaccia mortale che si ritroverà a dover affrontare a viso aperto.

Abigail segue sin da subito una linea narrativa molto vicina ad alcuni film horror contemporanei che operano attraverso espliciti ribaltamenti di prospettiva, filone di rilettura dello slasher classico lanciato d’altronde proprio dallo Scream di Wes Craven. In Abigail, infatti, un gruppo di criminali ingaggiato per rapire una bambina – la ballerina Abigail, interpretata da Alisha Weir – figlia di un influente leader criminale, dovrà fare i conti con l’inaspettato pericolo, dalle tinte sovrannaturali, rappresentato dal loro stesso ostaggio. Come accade, ad esempio, anche in Man in the Dark, i cacciatori diventano presto le prede, in un gioco burlesco che mescola un immaginario da escape room con qualche tiepida deriva splatter.

Ciò che distanzia Abigail dalle svariate pellicole che ricorrono agli stilemi tipici dello slasher è indubbiamente il tono scanzonato e volutamente camp che abbraccia l’intero film, a partire dalla stilizzazione – a tratti fin troppo eccessiva e macchiettistica, pur nella sua evidente ironia – del gruppo di criminali protagonista (il drogato, il belloccio, il veterano, e così via) sino ad arrivare alle immancabili gag dovute alle “peculiarità” caratterizzanti l’insolito villain del film. Diversamente da Ready or Not, però, Bettinelli-Olpin e Gillett si incartano nel worldbuilding, nel processo di edificazione del loro “mondo”, il quale non ha necessariamente bisogno di essere approfondito o spiegato, cadendo malauguratamente nella trappola della giustificazione e della razionalizzazione, perdendo di vista il valore del mistero e della suggestione nel tentativo di dover necessariamente trovare una risposta logica all’illogico.

Poco incisivi sono anche i ruoli di alcuni dei comprimari, come nel caso di Giancarlo Esposito, sprecato per un personaggio terziario legato ad uno sviluppo facilmente prevedibile, o di Dan Stevens, fuori parte dall’inizio alla fine del film. Al contrario, Melissa Barrera riconferma le sue ottime capacità attoriali, dimostrando di non aver accusato il colpo della perdita del ruolo che l’ha fatta conoscere al grande pubblico, mentre la piccola Alisha Weir è il vero highlight attoriale del film, di fatto protagonista di un’interpretazione multiforme che, in fin dei conti, è ciò che dà carattere all’intero film.

Sicuramente Abigail vince la scommessa del volersi proporre come un prodotto mainstream che prende le mosse dalla gimmick della sua protagonista (il recente M3gan lavora con idee simili) per divertire nell’immediato e aprire alla possibilità di svariati sequel, ma a conti fatti ciò che rimane realmente è un’esperienza tenuta a freno nelle sue ambizioni, mai realmente sovversiva (le immagini conclusive di Samara Weaving in Ready or Not sono un pallido ricordo) e buona solamente per trascorrere un paio d’ore a cervello spento. Il che non è necessariamente un male, anzi, ma dal duo che ha rilanciato Scream è lecito aspettarsi qualcosa di più.

Daniele Sacchi