Armageddon Time, la recensione del film di James Gray

Armageddon Time

Armageddon Time – Il tempo dell’apocalisse è il nuovo film di James Gray, a tre anni di distanza dall’epopea sci-fi di Ad Astra. Più misurato e contenuto in termini di scopo e messa in scena rispetto al film precedente, Armageddon Time scava nella biografia personale del suo autore (un tema comune negli ultimi tempi, si pensi a The Fabelmans di Steven Spielberg e a Empire of Light di Sam Mendes) per proporre un coming of age sulla crescita e sull’accettazione delle diversità. Oltre a ciò, il film di James Gray cerca di mettere in risalto le contraddizioni di una società piegata dalle illusioni dell’american dream e dal razzismo, cercando di istituire un (tiepido) filo connettivo tra gli Stati Uniti degli anni ’80 e il contesto contemporaneo.

Armageddon Time – il titolo si riferisce ad Armagideon Time, b-side del singolo London Calling dei The Clash e cover di Willie Williams – è ambientato negli anni ’80 nel Queens. Il quartiere newyorkese fa da sfondo alla storia di due giovanissimi amici, Paul (Michael Banks Repeta) e Johnny (Jaylin Webb), di differente estrazione sociale. Paul, infatti, è bianco e figlio di una famiglia borghese di origine ebraica, mentre Johnny è afroamericano e si prende cura della nonna gravemente malata. Le diversità socio-economiche non impediranno ai due di consolidare la loro amicizia, ma i genitori di Paul (interpretati da Anne Hathaway e Jeremy Strong) decideranno presto di frenare il tutto trasferendo il figlio in una scuola privata, preoccupati dall’influenza a loro dire negativa esercitata da Johnny.

Figura chiave di Armageddon Time è il nonno di Paul, Aaron. L’uomo, interpretato magistralmente da Anthony Hopkins (unica prova attoriale degna di nota del film), aiuterà il nipote a comprendere la sua posizione privilegiata rispetto all’amico, vessato a scuola per il colore della sua pelle e per le sue condizioni economiche. La presa di coscienza del passato, esemplificata non solo dal confronto con il nonno ma anche – e soprattutto – con le proprie origini ebraiche, si dimostrerà una chiave di lettura fondamentale per Paul nella sua interpretazione della realtà che lo circonda, aiutandolo a trovare il coraggio di esporsi contro le ingiustizie che affliggono l’amico e portandolo di fatto alla messa in atto di una vera e propria forma di eversione ribelle.

Nonostante le buone premesse, Armageddon Time è un film banale e lezioso, eccessivamente didascalico nella messa in scena dei rapporti familiari di Paul (l’overacting di Jeremy Strong nel ruolo del padre è fastidiosamente percepibile) e delle barriere sociali che separano i due amici. James Gray affida quella che di fatto è una lezioncina morale a metafore fin troppo semplici e riduttive della complessità dei problemi di cui tratta – gli stessi meccanismi sono in moto anche nel già citato Empire of Light di Sam Mendes – risultando infine in un film poco inquadrato. La questione razziale, specialmente, viene liquidata attraverso una messa in parentesi – la presunta distanza offerta dal punto di vista cosiddetto “privilegiato” – che provoca pochi spunti di riflessione, mettendo da parte ogni sfumatura e possibilità di approfondimento per una lettura del Reale approssimativa e poco intelligente. Se l’Apocalisse sociale profetizzata da Ronald Reagan è davvero in arrivo, il film di James Gray non riesce sicuramente a fare alcuna luce a riguardo.

Daniele Sacchi