Empire of Light, la recensione del film di Sam Mendes

Empire of Light

Nel 1980, in una città costiera inglese, il giovane Stephen (Micheal Ward) viene assunto come dipendente in una sala cinematografica locale. Si tratta dell’Empire Cinema, centro focale attorno al quale ruotano tutte le vicende di Empire of Light, il nuovo film diretto e sceneggiato da Sam Mendes. Tre anni dopo il grande successo di pubblico e di critica di 1917, Mendes abbandona i virtuosismi registici e i vfx roboanti impiegati per ricostruire gli scenari della Grande Guerra per cercare di raccontare una storia più intima e contenuta, guidata da una buona interpretazione di Olivia Colman nei panni di Hilary, la direttrice di sala dell’Empire Cinema.

L’ottima prova del cast non basta, però, per tenere in piedi un’opera dall’ossatura troppo debole, specialmente dal punto di vista sceneggiativo. Empire of Light persegue diverse direzioni narrative, limitandosi fortemente però nell’esplorarle fino in fondo e fallendo nell’aggiungere qualcosa di nuovo ai discorsi – a monte importantissimi – che cerca di avanzare. E dire che l’incipit del film sembrava promettente. L’Empire Cinema viene tratteggiato inizialmente come un microcosmo variegato ed interessante, con un focus non solo sulle dinamiche tra il personale di sala, ma anche sul cinema stesso in quanto luogo e spazio fisico dove l’immaginario cinematografico vive, risplende e si diffonde, creando legami – anche impliciti – tra il pubblico che lo esperisce.

Empire of Light, tuttavia, non è The Fabelmans (per restare nel contemporaneo), e le suggestioni sul “potere del cinema” rimangono solamente tali, un veicolo narrativo artificioso e fine a se stesso. È qui che il film dell’ex regista bondiano prende infatti una piega diversa, cercando di tendere il suo sguardo più sul “concreto”, verso gli orizzonti del contemporaneo. Nel tentativo di imbastire un qualche tipo di indagine sociale, Empire of Light divaga prima sulla questione del razzismo e poi sul tema della malattia mentale, ricorrendo al registro del melodramma amoroso nel tentativo di rendere più raccolte e, in un certo senso, più vissute le sue innocue lezioncine morali.

In realtà, l’effetto suscitato è esattamente quello opposto. Le vessazioni subite da Stephen e il progressivo manifestarsi del disagio psicologico di Hilary vengono presentati spesso in segmenti isolati e poco inquadrati. Il rischio è quello di sminuire l’importanza del messaggio di vicinanza e di unione che il film vorrebbe comunicare. Alcuni passaggi del film sono inoltre veramente poco ispirati, come nel caso delle sequenze fin troppo didascaliche che coinvolgono il personaggio interpretato da Colin Firth, il capo fedifrago dell’Empire Cinema. Persino la scena madre di Empire of Light, il vero momento di catarsi e meraviglia per Hilary, non riesce a muovere realmente in profondità. Per fortuna, insieme al cast, il lavoro svolto da Roger Deakins alla direzione della fotografia e da Trent Reznor e Atticus Ross alla colonna sonora è – come sempre – di grandissimo livello, impedendo di fatto al film di Mendes di cadere a picco. Ma è solo una magra consolazione.

Daniele Sacchi