Il prodigio, la recensione del film di Sebastián Lelio

Il prodigio

Esattamente come il collega e conterraneo Pablo Larraín, il regista cileno Sebastián Lelio (premio Oscar al miglior film in lingua straniera per Una donna fantastica) sta ormai da diverso tempo cercando di traslare la propria arte nel panorama cinematografico in lingua inglese. Dopo Disobedience e Gloria Bell, remake hollywoodiano del suo Gloria, il passo successivo nell’avventura anglofona di Sebastián Lelio è Il prodigio (The Wonder), adattamento del romanzo omonimo di Emma Donoghue. L’autrice, tra gli altri, di Room figura qui come co-sceneggiatrice insieme allo stesso Lelio e ad Alice Birch di Normal People, in un dramma in costume intenso che vede Florence Pugh come protagonista.

Ne Il prodigio, Florence Pugh interpreta Elizabeth Wright, un’infermiera che, dopo aver prestato assistenza durante la guerra in Crimea, viene inviata nel 1862 in un piccolo villaggio irlandese. Il compito di Elizabeth consiste nell’osservare da vicino la “miracolosa” Anna O’Donnell (Kila Lord Cassidy), in piena salute nonostante non mangi da diversi mesi. Alternandosi nel suo lavoro di osservazione con una suora, l’infermiera si troverà a scontrarsi con le contraddizioni di una comunità estremamente chiusa e poco incline ad un esame scientifico della questione, specialmente dinanzi all’eventuale possibilità di essere di fronte ad un mistero dalla natura inspiegabile e divina.

Lo scontro tra l’attitudine scientifica e l’oscurantismo religioso della comunità viene ben delineato da Lelio attraverso l’indagine di Elizabeth sulla situazione di Anna. Il regista cileno traccia diversi parallelismi tra il normale cibarsi quotidiano di Elizabeth con il digiuno senza conseguenze di Anna, giustapponendo la naturale fame di conoscenza dell’infermiera con l’evidente irrazionalità della situazione personale della bambina. In questa contrapposizione si inserisce la questione fondamentale de Il prodigio, e non è un caso che l’indagine viene portata avanti attraverso una prospettiva duplice, da un lato razionale e dall’altro lato relativa invece alla fede. Il percorso individuato dal medico locale (Toby Jones) e dal comitato che ha richiesto l’esame della bambina contiene in potenza una direzione fondante e applicativa che, di fatto, anticipa una conclusione stabilita già in partenza: l’osservazione critica è un pro forma, perché il volgo ha già deciso l’inevitabilità della presenza di un’azione mistica.

Sebastián Lelio, infatti, non lesina nel sottolineare sin da subito la riverenza e la venerazione mostrata dalla comunità nei confronti di Anna e del miracolo che rappresenta. La presenza di un dogmatismo diffuso, persino nell’ambito familiare, si dimostrerà però un ostacolo pesante da superare per Elizabeth, alla ricerca della verità sulla condizione della bambina. È qui che il regista cileno individua uno snodo cruciale per il film, ossia nel soffermarsi sul progressivo avvicinamento tra le due figure, concentrandosi su una toccante messa in scena che trova una sua risoluzione nella commistione tra immagini forti ed echi spettrali – come lo sguardo del fratello di Anna in una fotografia, gli occhi vitrei ridipinti dopo la morte, un afflato artistico che muterà profondamente di significato nel corso del film – dedicandosi anche ad incursioni intelligenti nel dominio del linguaggio. Da quest’ultimo punto di vista, l’atto stesso di possedere un nome e, in una certa misura, di essere definiti da esso, si inserisce in un discorso dalla matrice esistenziale che accarezza diversi ambiti, dalla fede sino al superamento del trauma.

L’unica nota poca inquadrata de Il prodigio è la volontà, manifestata in particolar modo in apertura e in chiusura del film, di esibire l’artificio della macchina-cinema, strizzando quasi l’occhio a Persona a tratti senza però veicolare in alcun modo la stessa potenza immaginifica o la stessa carica filosofica del capolavoro di Ingmar Bergman. La suggestione proposta da Sebastián Lelio è comunque interessante a monte e riecheggia durante il film evidenziando a più riprese la caratteristica – e la necessità – tutta umana di raccontare storie, una chiave di lettura forse un po’ scontata ma, nel complesso, funzionale al film.

Daniele Sacchi