Infinity Pool di Brandon Cronenberg, la recensione

Infinity Pool

In Stati di allucinazione, Ken Russell tratteggiava la spirale discendente di un uomo a contatto con il suo Sé originario, celato e latente, dopo essersi privato di ogni sensorialità e connessione empatica con l’alterità. Tra potenti allucinogeni ed esperienze di deprivazione sensoriale, il protagonista di Stati di allucinazione scopriva la sua essenza primitiva, archetipica ed annichilitoria in un viaggio fatale nei recessi della sua mente, in una trasformazione che passava anche – e soprattutto – dalla corporeità. Più di 40 anni dopo, Brandon Cronenberg – al terzo lungometraggio dopo il buon esordio Antiviral e il sorprendente Possessor – riprende in Infinity Pool le stesse suggestioni avanzate da Russell, proiettandole però in un orizzonte attuale in grado di mettere sapientemente a nudo le crisi fondamentali del soggetto contemporaneo.

Presentato nella cornice della Berlinale, il trip infernale diretto dal figlio di David Cronenberg è uno sguardo terrificante sulle derive e sulle ossessioni di un’umanità allo sbando, incapace di collocarsi adeguatamente nei tumultuosi percorsi del Reale. Le piscine infinite di un lussuoso resort nell’immaginaria località semi-distopica di Li Tolqa sono lo sfondo di un racconto duro e a tratti brutale su uno scrittore in crisi, James (Alexander Skarsgård), in vacanza con la moglie Em (Cleopatra Coleman). I due conoscono un’altra coppia, Gabi (Mia Goth) e Alban (Jalil Lespert), con la quale trascorrono una giornata insieme in spiaggia, ma durante il viaggio di ritorno in hotel, stanco e ubriaco, James finisce per investire una persona, uccidendola sul colpo. Per l’uomo, è solo l’inizio di un (apparente) incubo: le leggi e le usanze locali con le quali dovrà avere a che fare, infatti, si riveleranno essere incredibilmente bizzarre e brutali.

Vi sono delle evidenti affinità tra Infinity Pool e altre opere cinematografiche recenti, come il nichilista Sundown di Michel Franco o come il suo film precedente Nuevo orden (sebbene entrambi falliscano nell’inquadrare in maniera coerente gli smarrimenti identitari del contemporaneo), o ancora con la vuotezza dell’apparenza esibita ad esempio in Triangle of Sadness di Ruben Östlund. Il film di Cronenberg, tuttavia, con la sua estetica graffiante – in perfetto equilibrio tra un body horror viscerale e onnipervasivi trip allucinogeni – coniuga alla perfezione un certo discorso sul vuoto sociale con l’esplorazione degli abissi interiori dell’essere umano.

Il regista canadese attua una precisa commistione delle tensioni taciute – ma opprimenti – dell’individuo con gli isterismi di una collettività edonista e decadente, affiancando a questa chiave interpretativa della realtà un gusto per il provocatorio, per il macabro e il morboso. Nel declino e nella rovina del personaggio di James, tormentato da una figura a lui contigua e affine – Gabi, un’altra interpretazione eccezionale di Mia Goth dopo Pearl – ma allo stesso tempo, quasi per ossimoro, opposta e dominante, affiora tutto il ri-emerso, ciò che è sopito e a prima vista assente, ma che per quanto taciuto non può che infine darsi come irrimediabilmente presente.

Nel momento in cui l’eventualità di una liberazione, che sia individuale o collettiva, sessuale o violenta, concreta o artificiale, si dimostra possibile, ciò che si cela sotto la pelle emerge e diventa nuova carne (se vogliamo per forza richiamare il padre David), un doppelgänger e nuovo Sé che se da un lato può ambire ad essere padrone di se stesso, dall’altro lato è per forza anche servo, fantoccio e vittima. L’esibizione di un nuovo volto e di una nuova carne, e dunque di una nuova de-sensibilizzazione russelliana primordiale, va di pari passo con un ulteriore occultamento, come già presagivano i volti sfigurati, deformi e liquidi di Possessor e come d’altronde suggeriscono anche le maschere tribali indossate a più riprese dai protagonisti di Infinity Pool. Forse oggi, per il proprio vero Sé, non è vi è più spazio alcuno.

Daniele Sacchi