Hellraiser, la recensione del film di David Bruckner

Hellraiser

C’era grande attesa per il remake Hulu di Hellraiser, non soltanto perché l’annuncio del casting femminile di Jamie Clayton per il ruolo del cenobita più importante della saga aveva portato con sé il solito strascico di puerili polemiche. La verità è che il franchise era da tempo bloccato in un purgatorio di mediocrità e banalità, intrappolato come i suoi personaggi in un ciclo ridondante che si ripeteva ogni volta sempre uguale. I fan desideravano nuove esperienze, nuove forme di orrore. Pur non possedendo l’iconicità – comunque mai eguagliata dai sequel – del primo Hellraiser, il film di David Bruckner riesce a svecchiare la saga cambiando la forma, ma restando fedele alla sostanza.

Riley (Odessa A’zion) è una giovane donna che ha avuto dei problemi con l’alcool e la droga. Nella sua nuova vita da astinente condivide una casa con il fratello Matt, il suo fidanzato Colin e l’amica Nora. Quando la strada di Riley si incrocia con quella della misteriosa “configurazione del lamento”, una scatola misteriosa e utilizzata per evocare i misteriosi cenobiti, i suoi affetti saranno i primi a pagarne le conseguenze. Nel tentativo di rimediare ai suoi errori, la ragazza dovrà capire con cosa ha a che fare, sollevando il velo che divide il nostro mondo da un universo di orrore e dolore.

Il ringiovanimento estetico della saga è molto più profondo del semplice recasting del personaggio di Pinehead. Quello a cui i cenobiti – i mostri/demoni del franchise – vanno incontro è un rinnovamento dello stile e dell’estetica. Abbandonati i vestiti in latex e l’immaginario cyberpunk dei tardi anni ’80, i cenobiti di oggi sono nudi, rivoltati e rivoltanti. Le dolorose deformazioni e mutilazioni corporali si moltiplicano ed estendono su ogni parte del corpo. Sebbene diversi dalle versioni precedenti, riescono a conservare tutto il loro fascino terrificante. D’altronde, se c’è una cosa in cui Hellraiser non ha mai vacillato, nemmeno nei suoi capitoli peggiori, è il design delle sue creature.

Senso di colpa e dipendenza guidano la lettura di questo remake. Dipendenza dalle droghe della protagonista, dal potere dell’antagonista e dal dolore dei cenobiti, ognuno si muove con l’unico intento di soddisfare il proprio desiderio personale. Nell’universo infero di Hellraiser non c’è nessuna alternativa se non diventare consapevoli del proprio egoismo. A quel punto esistono solo due possibilità: rifiutarlo e convivere con il senso di colpa per il male arrecato a chi amiamo, abbracciarlo e alimentarlo, fino a trasformarci in mostri come i cenobiti.

Hellraiser di David Bruckner non è un film che rivoluzionerà il genere, non è neanche il miglior capitolo della saga, ma è la medicina di cui la saga aveva bisogno in questo momento. Una buona partenza per un franchise molto apprezzato, che da qui può muovere nuovi primi passi.

Gianluca Tana